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GIUGNO 2012

     

Minorenni in gravidanza un progetto per ridurre i rischi

 

            Ogni anno in Italia sono 10 mila le adolescenti che affrontano una gravidanza inaspettata e il 57% di loro “sceglie” di interromperla. Non è tuttavia facile capire se la cosiddetta “scelta” abortiva  sia davvero personale o indotta (se non  addirittura consigliata o “imposta” dal padre del bambino e dalla famiglia). E’ aumentato del 30%  negli ultimi tre anni il numero delle minorenni incinta che si sono rivolte ai consultori della Lombardia. I dati arrivano dal “Progetto Giovani Mamme”, attivo da un anno all’Ospedale San Paolo di Milano con il contributo della Fondazione Ambrosiana per la vita e l’Università  Milano Bicocca. Il Progetto è stato attivato e sperimentato proprio per affrontare un fenomeno in costante crescita, quello delle madri adolescenti.  Dal 2009 il San Paolo ha assistito, su 3.927 parti, 181 donne sotto i 21 anni, di cui 35 tra i 14 e i 18 anni. Un età delicata per affrontare una gravidanza, anche perché collegata ad alti fattori di rischio che rendono spesso complicata e difficoltosa la relazione tra madre e bambino. Un rischio è quello psicopatologico per le giovanissime mamme, soprattutto di tipo depressivo, insieme al rischio di trascuratezza e di maltrattamento del bambino. Nel progetto milanese è previsto un ambulatorio per le giovani gravidanze e un servizio di accompagnamento alla crescita che sostiene le neo-mamme nei primi due anni di vita del bambino. I risultati della sperimentazione, che si allinea ai progetti di prevenzione europei, sono incoraggianti, ha detto Cristina Riva Crugnola responsabile scientifico del progetto. Le mamme seguite nel primo anno di vita hanno aumentato la loro sensibilità e capacità di accudire i figli e, allo stesso tempo, i bambini mostrano legami sicuri verso le loro mamme. L'obiettivo del progetto ora è quello di aumentare il numero delle ragazze seguite, aumentare il coinvolgimento dei padri ed esportare il modello anche in altre strutture. Un dato confortante è rappresentato dal 43 % di ragazze in Italia che “scelgono” di far nascere il figlio nonostante la giovanissima età. Sono ragazze veramente coraggiose. La loro scelta di vita è un esempio virtuoso che interroga tanti adulti. Le famiglie d’origine, che si trovano ad essere nonni giovani, sono un grande supporto. E’ pur vero che una maternità in adolescenza porta con sé problematiche dovute all’immaturità delle giovani mamme, ma far nascere un figlio non produce tutti quei sintomi ansiosi, depressivi e di poca autostima che insorgono dopo un aborto, magari consigliato o imposto. Gli studi a livello internazionale delle sequele “post aborto” sono già molti e convalidati. L'ultimo in ordine di tempo è del 2011 da parte di Priscilla K. Coleman, comparso nell’edizione di settembre del British Journal of Psychiatry (BJPsych), rivista per niente pro life.

            La Coleman ha svolto la propria “meta-analisi” generale sulle ricerche pubblicate tra il 1995 e il 2009, la più estesa stima quantitativa disponibile nella letteratura mondiale dei rischi per la salute mentale associati all’aborto.

            Lo studio  conclude dicendo che, nell’insieme, aver avuto un’esperienza di aborto ha portato a uno sconcertante aumento dell’81% dei rischi di sviluppare problemi di salute mentale per tutte le suddette variabili (cioè ansia, depressione, uso di alcol, uso di marijuana e comportamento suicida). E vi sono prove considerevoli del fatto che i problemi di salute mentale derivanti dall’aborto talvolta si manifestano dopo diversi anni.  Gli effetti rilevati risultano più evidenti quando si confrontano le donne che hanno abortito con quelle che hanno deciso di portare a termine la gravidanza.

            I dati scientifici dimostrano che partorire “riduce il rischio di sviluppare problemi di salute mentale” e ha “effetti protettivi” sulla salute mentale della donna. Altri dati sul post aborto riscontrano la presenza di “sensi di colpa” e “rabbia” per aver compiuto qualcosa dal quale non si può “tornare indietro” o al quale non si può “rimediare”. Su queste esperienze interiori, che spesso la donna porta da sola anche se giovanissima, non possiamo essere superficiali.

Gabriele Soliani

 

 

Tre anni, gravemente malata. La sua famiglia è il reparto pediatria di Livorno (A cura di Barbara)

2 maggio 2012 Benedetta Frigerio 

            C’è una bimba che vive da quasi tre anni nell’ospedale di Livorno, seguita da infermieri e medici che se ne prendono cura come fosse una figlia. Anche se non parla e sorride appena, anche se si alimenta con una sonda naso-gastrica, anche se è affetta da una grave cerebropatia genetica. La Repubblica ha parlato del suo caso la settimana scorsa per denunciare la legge sullo Ius Soli (diritto di cittadinanza acquisito in caso di nascita sul territorio di uno stato): se fosse cittadina italiana, il processo di adozione sarebbe stato più veloce.

            La piccola è nata nel 2009 da due nomadi dell’Est che non sanno né riescono a prendersene cura. Ma da quando è nata la piccola, di cui non si conosce il nome, non è rimasta mai sola, nemmeno un momento. Ci sono infermiere che le dedicano del tempo ogni giorno. Come Simona, di cui la bimba riconosce la voce non appena entra in stanza. Tutto il personale, poi, interagisce con lei, che non parla ma piange, si esprime con la mimica del volto e sa comunicare i suoi bisogni o la voglia di farsi prendere in braccio. Sono stati loro a organizzarle i suoi due primi compleanni. E mentre i medici si preoccupano di vestirla e di portarle dei giochi sonori, non c’è paziente della pediatria che con la propria famiglia non l’abbia conosciuta, passando dalla sua stanza con regali e disegni o semplicemente per farle compagnia. «La bambina riesce a interagire», ha spiegato il primario dell’ospedale. Senza una parola e a prescindere dal dibattito sullo Ius Soli, sta dicendo a tutti qualcosa. Come può una vita apparentemente “immobile” commuovere tanti? Come può generare tanto bene fino a unire un intero reparto? E perché non ammettere che, se non noi, al mondo ci sarà sempre qualcuno capace di accogliere una vita?

            La piccola erebropatia che non parla e si nutre con il sondino, adottata dal reparto di pediatria dell’ospedale di Livorno due anni e mezzo fa, continua a parlare. Questa volta lo fa tramite la voce delle infermiere che la assistono. Simona è la più affezionata alla bimba, come spiega a tempi.it: «È come la mia seconda figlia. Lo dico davvero, se andasse via sarebbe come lasciare una parte di me. Per il suo bene desidero che sia adottata, ma mi mancherebbe». Simona, infatti, oltre che negli orari di lavoro sta con la piccola appena può. E in ospedale porta anche la figlia naturale. Due anni e mezzo fa non l’avrebbe mai fatto né detto. «Se me lo avessero chiesto? Avrei dato della matta a una madre che porta sua figlia davanti a tanta sofferenza». Ora invece la bambina è diventata amica dei figli di tutto il personale. Come mai? «Innanzitutto non c’è solo dolore: vedere la forza di questa guerriera che lotta per vivere e che cerca il nostro affetto insegna a chi la assiste a rendersi conto di quanto ha. Delle piccole cose. Mia figlia, poi, la porto qui perché passi del tempo con quella che considera sua sorella e si accorga di quanto siamo fortunati. Ma soprattutto di quanto si possa essere felici con poco». Felici? In stato vegetativo? «La piccola è contenta della sola presenza nostra, delle minime attenzioni, delle nostre carezze. Questo insegna a me e a mia figlia a vivere: vale la pena lottare per la vita come fa lei. Ora non assecondo più i capricci. Anzi quando li fa le ricordo la sua “sorellina” e lei capisce».

            La sofferenza degli innocenti fa ribellare. Molti per questo arrivano a dire che è meglio la morte. «Sono onesta, due anni e mezzo fa lo pensavo anche io. Mi dicevo: se una persona non parla, se è costretta a letto, se si nutre con il sondino è condannata a una sofferenza senza senso. Mi sbagliavo perché mancava qualcosa». Non c’è evidenza scientifica, dicono alcuni. «Purtroppo le macchine non possono misurare cose come l’amore e la felicità: possono dire quello che vogliono, che una vita in questo caso non abbia un significato, ma ora non ci casco più. Sotto i miei occhi c’è altro». Ed è qualcosa di così evidente che tutto il reparto ora la pensa come Simona. «È così. Noi passiamo con lei ventiquattro ore su ventiquattro. Non c’è spiegazione scientifica che possa negare quello che vediamo: la bimba sente il contatto, sente se ci siamo, patisce se ha bisogno, gioisce del nostro affetto. Si accorge di come viene accarezzata, di come le si sussurra nell’orecchio. Sente che noi la amiamo». Un bel mistero questa piccola. «Un mistero che ci insegna tanto. Ci insegna che tutto quello che c’è, se c’è, è perché ci deve essere. Ci insegna l’amore che comunica».

            Ad esempio, spiega Rossella, un’altra infermiera che si definisce “la zia”, «la bimba ci unisce nel curarla, facendoci capire che se anche non possiamo guarirla vale la pena comunque dare tutto per assisterla». Anche quando nulla può cambiare dal punto di vista clinico: «È una vita che chiede amore e che ne genera anche di più». E si vede. «Appena uno di noi arriva in reparto chiede di lei ai colleghi del turno precedente: come è andata la notte? Come è stata oggi? E poi si passa in cameretta». Impressiona pensare che fermi in un letto si possa fare tanto: «Per questo le saremo tutti grati. Per sempre».

 

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Ultimo aggiornamento: 12 novembre 2021
 
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