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NOVEMBRE 2007

     

MARTIRIO DI PERPETUA E FELICITA
1° marzo 1944.
Passo di sorpresa in sorpresa; perché per prima cosa mi trovo di fronte a degli africani, arabi per lo meno, mentre ho sempre creduto che questi santi fossero europei. Ché non avevo la minima nozione della loro condizione sociale e fisica e del loro martirio. Di Agnese sapevo vita e morte. Ma di questi! È come se leggessi un racconto sconosciuto.
Per prima illustrazione, avanti di svenire, ho visto un anfiteatro su per giù come il Colosseo (ma non rovinato), vuoto per allora di popolo. Solo una bellissima e giovane mora è ritta là in mezzo e sollevata dal suolo, raggiante per una luce beatifica che si sprigiona dal suo corpo bruno e dalla scura veste che lo copre. Sembra l’angelo del luogo. Mi guarda e sorride. Poi svengo e non vedo più nulla.
Ora la visione si completa. Sono in un fabbricato che, per la mancanza di ogni e qualsiasi comodità e per la sua arcigna apparenza, mi si rivela come una fortezza adibita a carcere. Non è il sotterraneo del Tullianum visto ieri. Qui sono stanzette e corridoi sopraelevati. Ma così scarsi di spazio e di luce e così muniti di sbarre e di porte ferrate e piene di chiavistelli, che quel “che” di migliore che hanno in posizione viene annullato dal loro rigore che annulla la benché più piccola idea di libertà.
In una di queste tane è seduta su un tavolaccio, che fa da letto, sedile e tavola, la giovane mora che ho visto nell’anfiteatro. Ora non emana luce. Ma unicamente tanta pace. Ha in grembo un piccino di pochi mesi al quale dà il latte. Lo ninna, lo vezzeggia con atto di amore. Il bambino scherza con la giovane madre e strofina la sua faccetta molto olivastra contro la bruna mammella materna, e vi si attacca e stacca con avidità e con subite risatine piene di latte.
La giovane è molto bella. Un viso regolare piuttosto tondo, con bellissimi occhi grandi e di un nero vellutato, bocca tumida e piccina piena di denti candidissimi e regolari, capelli neri e piuttosto crespi ma tenuti a posto da strette trecce che le si avvolgono intorno al capo. Ha il colorito di un bruno olivastro non eccessivo. Anche fra noi italiani, e specie del meridione d’Italia, si vede quel colore, appena un poco più chiaro di questo. Quando si alza, per addormentare il piccino andando su e giù per la cella, vedo che è alta e formosa con grazia. Non eccessivamente formosa, ma già ben modellata nelle sue forme. Sembra una regina per il portamento dignitoso. È vestita di una veste semplice e scura, quasi quanto la sua pelle, che le ricade in pieghe morbide lungo il bel corpo.
Entra un vecchio, moro lui pure. Il carceriere lo fa entrare aprendo la pesante porta. E poi si ritira. La giovane si volge e sorride. Il vecchio la guarda e piange. Per qualche minuto restano così.
Poi la pena del vecchio prorompe. Con affanno supplica la figlia di aver pietà del suo soffrire: “Non è per questo” le dice “che ti ho generato. Fra tutti i figli ti ho amata, gioia e luce della mia casa. Ed ora tu ti vuoi perdere e perdere il povero padre tuo che si sente morire il cuore per il dolore che gli dài. Figlia, sono mesi che ti prego. Hai voluto resistere ed hai conosciuto il carcere, tu nata fra gli agi. Curvando la mia schiena davanti ai potenti t’avevo ottenuto di esser ancora nella tua casa per quanto come prigioniera. Avevo promesso al giudice che ti avrei piegata con la mia autorità paterna. Ora egli mi schernisce perché vede che di essa tu non ti sei curata. Non è questo quel che dovrebbe insegnarti la dottrina che dici perfetta. Quale Dio è dunque quello che segui, che ti inculca di non rispettare chi ti ha generato, di non amarlo, perché se mi amassi non mi daresti tanto dolore? La tua ostinazione, che neppure la pietà per quell’innocente ha vinto, ti ha valso di esser strappata alla casa e chiusa in questa prigione. Ma ora non più di prigione si parla, ma di morte. E atroce. Perché? Per chi? Per chi vuoi morire? Ha bisogno del tuo, del nostro sacrificio - il mio e quello della tua creatura che non avrà più madre - il tuo Dio? Il suo trionfo ha bisogno del tuo sangue e del mio pianto per compiersi? Ma come? La belva ama i suoi nati e tanto più li ama quanto più li ha tenuti al seno. Anche in questo speravo e per questo ti avevo ottenuto di poter nutrire il tuo bambino. Ma tu non muti. E dopo averlo nutrito, scaldato, fatto di te guanciale al suo sonno, ora lo respingi, lo abbandoni senza rimpianto. Non ti prego per me. Ma in nome di lui. Non hai il diritto di farne un orfano. Non ha diritto il tuo Dio di fare questo. Come posso crederlo buono più dei nostri se vuole questi sacrifici crudeli? Tu me lo fai disamare, maledire sempre più. Ma no, ma no! Che dico? Oh! Perpetua, perdona! Perdona al tuo vecchio padre che il dolore dissenna. Vuoi che lo ami il tuo Dio? Lo amerò più di me stesso, ma resta fra noi. Di’ al giudice che ti pieghi. Poi amerai chi vuoi degli dèi della terra. Poi farai del padre tuo ciò che vuoi. Non ti chiamo più figlia, non son più tuo padre. Ma il tuo servo, il tuo schiavo, e tu la mia signora. Domina, ordina ed io ti ubbidirò. Ma pietà, pietà. Salvati mentre ancora lo puoi. Non è più tempo di attendere. La tua compagna ha dato alla luce la sua creatura, lo sai, e nulla più arresta la sentenza. Ti verrà strappato il figlio; non lo vedrai più. Forse domani, forse oggi stesso. Pietà, figlia! Pietà di me e di lui che non sa parlare ancora, ma lo vedi come ti guarda e sorride! Come invoca il tuo amore! Oh! Signora, mia signora, luce e regina del cuor mio, luce e gioia del tuo nato, pietà, pietà!”
Il vecchio è ginocchioni e bacia l’orlo della veste della figlia e le abbraccia i ginocchi e cerca prenderle la mano che ella si posa sul cuore per reprimerne lo strazio umano. Ma nulla la piega.
“È per l’amore che ho per te e per lui che rimango fedele al mio Signore” ella risponde. “Nessuna gloria della terra darà al tuo capo bianco e a questo innocente tanto decoro quanto ve ne darà il mio morire. Voi giungerete alla Fede. E che direste allora di me se avessi per viltà di un momento rinunciato alla Fede? Il mio Dio non ha bisogno del mio sangue e del tuo pianto per trionfare. Ma tu ne hai bisogno per giungere alla Vita. E questo innocente per rimanervi. Per la vita che mi desti e per la gioia che egli mi ha dato, io vi ottengo la Vita che è vera, eterna, beata. No, il mio Dio non insegna il disamore per i padri e per i figli. Ma il vero amore. Ora il dolore ti fa delirare, padre. Ma poi la luce si farà in te e mi benedirai. Io te la porterò dal cielo. E questo innocente non è che io l’ami meno, ora che mi sono fatta svuotare dal sangue per nutrirlo. Se la ferocia pagana non fosse contro noi cristiani, gli sarei stata madre amantissima ed egli sarebbe stato lo scopo della mia vita. Ma più della carne nata da me è grande Iddio, e l’amore che gli va dato infinitamente più grande. Non posso neppure in nome della maternità posporre il suo amore a quello di una creatura. No. Non sei lo schiavo della figlia tua. Io ti son sempre figlia e in tutto ubbidiente fuorché in questo: di rinunciare al vero Dio per te. Lascia che il volere degli uomini si compia. E se mi ami, seguimi nella Fede. Là troverai la figlia tua, e per sempre, perché la vera Fede dà il Paradiso, ed a me il mio Pastore santo ha già dato il benvenuto nel suo Regno”.
E qui la visione ha un mutamento, perché vedo entrare nella cella altri personaggi: tre uomini ed una giovanissima donna. Si baciano e si abbracciano a vicenda. Entrano anche i carcerieri per levare il figlio a Perpetua. Ella vacilla come colpita da un colpo. Ma si riprende.
La compagna la conforta: “Io pure, ho già perduto la mia creatura. Ma essa non è perduta. Dio fu meco buono. Mi ha concesso di generarla per Lui e il suo battesimo si ingemma del mio sangue. Era una bambina... e bella come un fiore. Anche il tuo è bello, Perpetua. Ma per farli vivere in Cristo questi fiori hanno bisogno del nostro sangue. Duplice vita daremo loro così”.
Perpetua prende il piccino, che aveva posato sul giaciglio e che dorme sazio e contento, e lo dà al padre dopo averlo baciato lievemente per non destarlo. Lo benedice anche e gli traccia una croce sulla fronte ed una sulle manine, sui piedini, sul petto, intridendo le dita nel pianto che le cola dagli occhi. Fa tutto così dolcemente che il bambino sorride nel sonno come sotto una carezza.
Poi i condannati escono e vengono, in mezzo a soldati, portati in una oscura cavea dell’anfiteatro in attesa del martirio. Passano le ore pregando e cantando inni sacri, esortandosi a vicenda all’eroismo.
Ora mi pare di essere io pure nell’anfiteatro che ho già visto. È pieno di folla per la maggior parte di pelle abbronzata. Però vi sono anche molti romani. La folla rumoreggia sulle gradinate e si agita. La luce è intensa nonostante il velario steso dalla parte del sole.
Vengono fatti entrare nell’arena, dove mi pare siano stati già eseguiti dei giuochi crudeli perché è macchiata di sangue, i sei martiri in fila. La folla fischia e impreca. Essi, Perpetua in testa, entrano cantando. Si fermano in mezzo all’arena e uno dei sei si volge alla folla.
“Fareste meglio a mostrare il vostro coraggio seguendoci nella Fede e non insultando degli inermi che vi ripagano del vostro odio pregando per voi e amandovi. Le verghe con cui ci avete fustigato, il carcere, le torture, l’aver strappato a due madri i figli - voi bugiardi che dite d’esser civili e attendete che una donna partorisca per poi ucciderla e nel corpo e nel cuore separandola dalla sua creatura, voi crudeli che mentite per uccidere perché sapete che nessuno di noi vi nuoce, e men che mai delle madri che altro pensiero non hanno che la loro creatura - non ci mutano il cuore. Né per quanto è amore di Dio né per quanto è amore di prossimo. E tre, e sette, e cento volte daremmo la vita per il nostro Dio e per voi. Perché voi giungiate ad amarlo, e per voi preghiamo mentre già il Cielo su noi si apre: Padre nostro che sei nei cieli...”. In ginocchio i sei santi martiri pregano.
Si apre un basso portone e irrompono le fiere che, per quanto sembrano bolidi tanto sono veloci nella corsa, mi paiono tori o bufali selvaggi. Come una catapulta ornata di corna puntute, investono il gruppo inerme. Lo alzano sulle corna, lo sbattono per aria come fossero tanti cenci, lo riabbattono al suolo, lo calpestano. Tornano a fuggire come pazzi di luce e di rumore e tornano a investire.
Perpetua, presa come un fuscello dalle corna di un toro, viene scaraventata molti metri più là. Ma per quanto ferita, si rialza e sua prima cura è di ricomporsi le vesti strappate sul seno. Tenendosele con la destra, si trascina verso Felicita caduta supina e mezza sventrata, e la copre e sorregge facendo di sé appoggio alla ferita. Le bestie tornano a ferire finché i cinque 5 malvivi sono stesi al suolo. Allora i bestiari le fanno rientrare e i gladiatori compiono l’opera.
Ma, fosse pietà o inesperienza, quello di Perpetua non sa uccidere. La ferisce, ma non prende il punto giusto. “Fratello, qua, che io ti aiuti” dice ella con un filo di voce e un dolcissimo sorriso. E, appoggiata la punta della spada contro la carotide destra, dice: “Gesù, a Te mi raccomando! Spingi, fratello. Io ti benedico” e sposta il capo verso la spada per aiutare l’inesperto e turbato gladiatore.

Dice Gesù:
«Questo è il martirio della mia martire Perpetua, della sua compagna Felicita e dei suoi compagni. Rea di esser cristiana. Catecumena ancora. Ma come intrepida nel suo amore per Me! Al martirio della carne ella ha unito quello del cuore, e con lei Felicita. Se sapevano amare i loro carnefici, come avranno saputo amare i figli loro?
Erano giovani e felici nell’amore dello sposo e dei genitori. Nell’amore della loro creatura. Ma Dio va amato sopra ogni cosa. Ed esse lo amano così. Si strappano le loro viscere separandosi dal loro piccino, ma la Fede non muore. Esse credono nell’altra vita. Fermamente. Sanno che essa è di chi fu fedele e visse secondo la Legge di Dio.
Legge nella legge è l’amore. Per il Signore Iddio, per il prossimo loro. Quale amore più grande di dare la vita per coloro che si ama, così come l’ha data il Salvatore per l’umanità che Egli amava? Esse dànno la vita per amarmi e per portare altri ad amarmi e possedere, perciò, l’eterna Vita. Esse vogliono che i figli e i genitori, gli sposi, i fratelli e tutti coloro che esse amano di amore di sangue o di amore di spirito - i carnefici fra questi poiché Io ho detto: “Amate coloro che vi perseguitano” (Mt 5,43-44) - abbiano la Vita del mio Regno. E, per guidarli a questo mio Regno, tracciano col loro sangue un segno che va dalla Terra al Cielo, che splende, che chiama.
Soffrire? Morire? Cosa è? È l’attimo che fugge. Mentre la vita eterna resta. Nulla è quell’attimo di dolore rispetto al futuro di gioia che le attende. Le fiere? Le spade? Che sono? Benedette siano esse che dànno la Vita.
Unica preoccupazione - poiché chi è santo lo è in tutto - di conservare la pudicizia. In quel momento, non della ferita ma delle vesti scomposte hanno cura. Poiché, se vergini non sono, sono sempre delle pudiche. Il vero cristianesimo dà sempre verginità di spirito. La mantiene, questa bella purezza, anche là dove il matrimonio e la prole han levato quel sigillo che fa dei vergini degli angeli.
Il corpo umano lavato dal Battesimo è tempio dello Spirito di Dio. Non va dunque violato con invereconde mode e inverecondi costumi. Dalla donna, specie dalla donna che non rispetta se stessa, non può che venire una prole¬ viziosa e una società corrotta, dalla quale Dio si ritira e nella quale Satana ara e semina i suoi triboli che vi fanno disperare.»

 

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Ultimo aggiornamento: 12 novembre 2021
 
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