EMIGRARE! Anna
Alfio e Carmelo Nicosio decisero di fermarsi, dopo tanto peregrinare, in quella landa semideserta.
Ormai erano tanti mesi che, lasciato il paese d'origine, non prima di aver riunito le loro poche misere cose. Con loro c'erano i sette figli, il maggiore di essi, Francesco, di soli dieci anni. Armati di tanta fede e speranzosi, si avviarono in direzione nord, alla ricerca di un pezzo di terra dove vivere e coltivare, sperando in una vita meno grama.
Lungo il viaggio ebbero modo di constatare la dura realtà in cui l'Italia contadina tentava faticosamente di emergere da quello stato miserevole, in cui la guerra l'aveva lasciata. Essi, nel risalire la Penisola, si imbatterono nei tanti piccoli agglomerati, dove risiedevano nuclei familiari privi di una qualsiasi forma di igiene, tanto che la mortalità, già frequente negli adulti, registrava livelli vertiginosi nella primissima infanzia; il più delle volte non si dava neanche il tempo di registrare le nascite, che la lunga falce della morte mieteva quelle giovani vite, incapaci di superare gli stenti ai quali erano sottoposte.
Essi presero possesso di un piccolo fondo di terra abbandonato perché pietroso, incapace di dar frutto, vi costruirono su una rudimentale capanna come dimora, poi presero a lavorare come braccianti agricoli nelle campagne limitrofe; nel tempo libero si dedicavano a dissodare il loro terreno, con la speranza che un giorno non lontano lo avrebbero coltivato e ne avrebbero ottenuto un raccolto. Fiduciosi, con le nude mani, cavavano quelle pietre, utilizzandole per erigere il muretto di confine.
Francesco era d'aspetto forte e robusto; per la sua giovane età il suo carattere si preannunciava fiero e ribelle agli ordini paterni. In cuor suo soffriva per quel loro stato miserevole, ma non conosceva modo o mezzi per cambiare.
Passò qualche anno e, sebbene giovanissimo, aveva conosciuto Lucia e con lei si era impegnato. Anche lei era giovanissima e da anni orfana di madre. Insieme facevano sogni e progetti di sposarsi, non dopo aver avuto un terreno tutto loro.
Il giorno in cui su quella pietraia misero piede un gruppo di uomini, con l'intento di trovare persone disposte ad emigrare nella lontana America, facendo credere che al di là del mare c'era lavoro e benessere per tutti, lui diede ascolto a tutte quelle lusinghe; già si immaginava ricco e proprietario di terreni e bestiame: riempì il suo zaino di vimini delle poche cose che aveva, salutò la famiglia e la sua Lucia, non dopo averle promesso che, una volta fatta fortuna, sarebbe tornato per portarla con sé. Senza neanche un soldo, insieme ad un amico, partì all'avventura.
Una volta imbarcatisi su quella nave, ebbe le prime cocenti delusioni: lui trovava conforto nella speranza che, una volta arrivati a destinazione, tutto sarebbe stato diverso. Sopportò quei lunghi giorni di navigazione con ostinata caparbietà, imponendosi di non disperare, neanche quando vedeva molti dei suoi sventurati compagni morire ed essere buttati in mare. Sete, fame, sporcizia erano i suoi compagni in quelle notti in cui dormiva su paglia intrisa di sterco umano, superando ogni limite di resistenza.
Finalmente videro terra; lui non seppe per quanti giorni avessero navigato e quanti altri giorni trascorsero lì, fermi, al largo, prima che si desse l'ordine di sbarco, a termine di tutte le pratiche burocratiche.
Sul molo trovarono uomini che li attendevano, li smistarono e, caricati su convogli, furono inviati nell'entroterra, per venire reclutati a svolgere lavori duri e pericolosi, in miniere o in zone selvagge, dove ancora non era giunta la ferrovia.
Francesco era analfabeta; gli venne detto che si trovava in una città chiamata Baltimora. Fu fatta una nuova selezione fra loro; nello smistarli venne diviso dal suo compagno e di lui non seppe mai più notizie. Un nodo alla gola lo prese, la sensazione di soffocamento lo rendeva agitato al punto da non passare inosservato: si sentiva perso fra quella gente, nessuno che parlava la sua lingua, un velo di nostalgia lo pervase, desiderava di essere nella casa sua, sebbene fosse una povera capanna. Si fece forza; e fiducioso nelle belle promesse, superò quei momenti.
Lì venne notato per la sua prestanza fisica e per quei modi quasi arroganti che facevano parte della sua indole. Venne ingaggiato per lavorare come scaricatore presso un ristorante: caricava e scaricava casse su casse di derrate alimentari e quarti di bue gli passavano sulle spalle con estrema facilità, merito della sua robusta mole. Lui si riteneva fortunato e, ad ogni stipendio, riusciva a mettere da parte delle monete che custodiva gelosamente dentro un calzino, tenuto legato saldamente all'interno della cintura dei pantaloni. Man mano che esse aumentavano egli si entusiasmava, impegnandosi ancor più nel lavoro.
Al ristorante, sempre molto frequentato da uomini tutti bene vestiti, ogni tanto andava un signore di bell'aspetto, insieme ad una bellissima donna elegantemente vestita, con cappello e tanti gioielli che tintinnavano come lei si muoveva. L'uomo scendeva dalla macchina, si guardava intorno, poi si accendeva sempre un grosso sigaro, ne faceva due tirate, lasciandolo poi cadere a terra. Entrato nel locale, si dirigeva in una sala riservata, dove una dozzina di uomini, arrivati precedentemente, lo stavano aspettando; restavano chiusi lì per ore e ore.
La signora era bellissima, con lunghi capelli biondi e tutta profumata; restava a girare tra quelle sale del locale, con un uomo che stava sempre dietro di lei.
Un giorno, la signora vide, attraverso i vetri di una finestra, Francesco intento a scaricare quarti di bue, restò a lungo ad osservarlo, colpito dalla forza solerte che metteva nel lavorare. Chiese informazioni sul suo conto: erano ottime! Le venne detto che era un italiano emigrato, instancabile lavoratore, desideroso di far fortuna, intraprendente, capace.
Qualche tempo dopo fu fatto chiamare e fu accompagnato nella sala riservata, fu lasciato solo per lungo tempo. Non riusciva a stare fermo, misurava con passi lunghi la sala, in lungo e in largo; su di un tavolo c'era una grossa valigia semiaperta; incuriosito si avvicinò ad essa e vide che all'interno vi erano diversi pacchi di banconote di grosso taglio; ebbe la tentazione di prenderle, poteva essere una grossa fortuna, ma resistette a tale richiamo, riprendendo a misurare la sala. Dopo qualche ora di attesa, lo stesso proprietario del locale lo raggiunse, gli disse che quel cliente che andava di tanto in tanto, gli offriva lavoro e aggiunse che si sarebbe trovato bene con quel nuovo padrone. Inoltre, porgendogli una busta con delle banconote come liquidazione per il suo lavoro, gli comunicò che lui non lo poteva più tenere al suo servizio e di ritenersi licenziato.
Francesco, pur non sapendo quale lavoro avrebbe svolto, accettò fiducioso.
L'indomani andarono alcuni uomini a prenderlo, gli diedero una bella bicicletta e partì con loro. Non aveva visto mai tanti uomini così ben vestiti, con ai polsi orologi d'oro e grossi anelli alle dita e tutti con quelle belle biciclette! Si sentì felice, pensò che, finalmente, la fortuna gli stava andando incontro. Per ore e ore pedalarono, il paesaggio circostante diventava sempre più arido e deserto, gli uomini parlavano fra di loro, lui non li comprendeva, ma a tratti aveva la sensazione di capire qualche frase in dialetto siciliano e fra sé si diceva: "Non è possibile!"
Finalmente le biciclette si fermarono in una radura: c'erano dei grossi capannoni in lamiera, zolle di terra li nascondevano ad eventuali sguardi indiscreti. Sembravano dei grandi magazzini adibiti a depositi di armi e munizioni.
Il gruppo entrò in uno di essi, molte donne erano intente a cucinare davanti a fornelloni accesi; gli aromi si spandevano in tutto l'ambiente.
Gli fu dato un abito, cambiò la giacca che gli risultava un po' grande, e, completato di cappello, in quei nuovi panni si sentì fiero e sicuro di sé; avrebbe desiderato che lo vedessero i suoi e soprattutto la sua Lucia.
(la storia continua al numero successivo)