LA MAFIA Anna
(continuazione)
Francesco fu fatto sedere a tavola, mangiò con avidità ogni pietanza che gli veniva servita, trovando tutto gustoso e di suo gradimento; in lui aumentava il senso di sicurezza, convinto di aver trovato la giusta strada per realizzare i suoi sogni.
La sera stessa arrivò un macchinone nero e vi discese la coppia che vedeva a volte nel ristorante; essi si diressero in un altro di quei capannoni.
Poco dopo Francesco, insieme agli altri uomini fu invitato ad entrare; l'interno, scarsamente illuminato, mise in Francesco un indefinito senso di angoscia. C'erano dei lunghi tavoli e tante sedie allineate alle pareti, diverse poltrone facevano circolo ad una poltrona più grande di pelle nera; seduto su di essa l'uomo con il sigaro acceso.
Francesco pensò fra sé: senza dubbio è il proprietario di questi capannoni, nonché il mio datore di lavoro. La signora sedeva un po' in disparte, con in braccio un cagnolino, si divertiva a lanciargli una pistola di plastica, che la bestiola velocemente rincorreva e tornava in grembo alla donna. Francesco lo trovò ridicolo, con quel ciuffetto di peli sulla fronte, legati da un nastrino giallo, che gli ricadeva sulle grosse orecchie.
Il capo fece cenno a Francesco di avvicinarsi; qualcuno gli tolse il cappello dalla testa, il capo allungò una mano e Francesco, d'impulso, la baciò inginocchiandosi ai suoi piedi. Il capo, in italiano, con un forte accento siciliano, gli chiese se aveva fatto un buon viaggio e aggiunse: "Sei felice di lavorare per la famiglia?" Timidamente lui rispose: "La famiglia l'ho lasciata in Italia, ma spero di tornarvi presto e sposare la mia Lucia", disse anche che era soddisfatto e riconoscente per essere lì. Era eccitato per aver udito la sua lingua; stava per chiedere quale lavoro avrebbe dovuto svolgere, ma fu interrotto dalle rumorose risate dei presenti, per la risposta che aveva dato, e cioè che la sua famiglia era in Italia. Perplesso non capiva il motivo di quelle risate.
Nello stesso tempo entrarono cinque uomini: tutti i presenti ammutolirono, nessuno più rideva; gli ultimi arrivati si portarono davanti alla grande poltrona e baciarono la mano al capo, uno di essi aveva sotto un braccio un grosso fagotto, sembrava fosse un tappeto; lo posò a terra ai piedi del capo e questi fece cenno; lo srotolarono. Ne uscì fuori la testa mozzata di un giovane uomo. Dissero: "Giustizia è fatta! Il Polacco ha avuto ciò che meritava!"
Francesco capì; tutto gli fu chiaro. Un sudore freddo gli imperlò le tempie, dalla nuca sentiva le gocce fredde scendere dietro la schiena. Ebbe la prontezza di spirito di mostrarsi indifferente. D'improvviso gli tornarono alla mente quei noiosi racconti di mafiosi, che i vecchi, lì in campagna, mentre lavoravano nei campi, raccontavano, ma lui non gli aveva mai dato credito, convinto che fossero solo frutto di fantasia. Ora, invece, ne era invischiato pericolosamente.
Nei giorni che seguirono continuò a fingere una calma apparente, meditando una possibile via di uscita da quel guaio in cui si era venuto a trovare.
I nuovi compagni, convinto che ormai fosse uno di loro, allentarono la sorveglianza; lui continuava a mostrarsi disponibile e tranquillo.
Il momento propizio arrivò una sera in cui arrivarono ai capannoni molte macchine, da cui discesero uomini dall'aria prestante e sicuri di sé. Gli uomini lì presenti li ossequiarono con un inchino e un baciamano. In ultimo giunse il capo e la sua signora. Essi si riunirono nel capannone centrale, dove erano stati apparecchiati tutti i tavoli con cura. Restarono riuniti lì per lungo tempo, dopo di che fu dato ordine di servire la cena, che le donne avevano preparato per l'intera giornata. Le pietanze si susseguirono ininterrottamente. Era verso la mezzanotte quando, furtivamente, Francesco si allontanò non visto. Cominciò a correre senza meta; unico pensiero: mettere più distanza possibile fra lui e quel posto.
Il protrarsi della sua assenza venne notato, un paio di uomini si misero alla ricerca; non vedendolo anche loro iniziarono a correre, uno lo raggiunse, gli gridò qualcosa che Francesco non capì; si sentì acciuffare dalla giacca, ne seguì una breve colluttazione, di cui ebbe la meglio; nel divincolarsi gli si sfilò la giacca che restò nelle mani dell'uomo, lui riprese a correre a perdifiato. Gli giunse indistinto il fischio di un treno, pensò di correre in quella direzione, non c'erano luci, la notte era fonda, se lo trovò all'improvviso davanti, che usciva da una galleria, il vuoto d'aria lo scaraventò in uno strapiombo e lì rimase nascosto per tutto il giorno successivo. Aspettò che di nuovo calasse la notte per risalirlo, poi, sempre tenendosi prudentemente nascosto, seguì la ferrovia che si snodava in lontananza, finché non giunse alle prime case e seppe di essere di nuovo a Baltimora.
Tenendosi ancora prudentemente nascosto di giorno, la notte si spostava furtivamente, cercando di ritrovare il ristorante in cui aveva lavorato, con l'illusione che lì avrebbe riavuto il suo posto di lavoro.
Il proprietario, vedendolo comparirgli all'improvviso davanti, impallidì mortalmente, era visibilmente terrorizzato, ma, preso da un sentimento di pietà nei confronti del ragazzo, gli consigliò di fuggire in fretta e aggiunse che non aveva via di scampo, era ricercato dalla banda, dopo che la sua condanna a morte era stata emessa, in seguito all'affronto fatto fuggendo, e per il pericolo che lui svelasse alla polizia il loro nascondiglio.
Non sapendo dove andare, si tenne nascosto nei paraggi. Quella stessa notte, in quella strada arrivarono alcune macchine; si fermarono davanti al ristorante, che fu palcoscenico della sparatoria che ne seguì, dove rimase a terra il proprietario e molte altre furono le vittime.
Il terrore si impadronì di Francesco. Anche se era illeso, sapeva di non avere via di scampo. Non visto riuscì ad allontanarsi pur non sapendo dove andare. La fortuna gli venne incontro nelle vesti di un uomo: era emigrato lì da molti anni, conosceva bene la lingua e la città, sapeva bene come muoversi senza essere visto. Con il suo aiuto Francesco riuscì a restare nascosto, finché poté imbarcarsi clandestinamente e tornare in Italia, nella sua piccola contrada e riabbracciare Lucia, che lo aspettava fiduciosa.
Erano passati solo 28 mesi dal giorno in cui aveva salutato tutti i suoi cari e, roccambolescamente, nottetempo, vi faceva ritorno. Si presentò alla porta di quella capanna, dove vi erano ancora i suoi genitori e i suoi fratelli più poveri di come li aveva lasciati, unico cambiamento: il terreno era quasi interamente dissodato e sopra vi avevano seminato alcuni sacchi di granturco che stava per essere raccolto di lì a breve.
Si abbracciarono con calore, poi lui corse ansioso nella contrada dove viveva Lucia; lei nel vederlo avrebbe voluto abbracciarlo, ma la moglie di suo padre la bloccò dicendole che solo donne di malcostume usavano fare certe cose. Lucia, offesa, restò in disparte. Lui la confortò dicendole che di lì a breve l'avrebbe sposata. Così dicendo tirò fuori dal vecchio calzino diverse banconote in dollari.
Lucia aveva solo diciotto anni e viveva ancora in casa del padre, insieme alla sorellina di quattordici anni e due fratelli che il padre aveva avuto in seconde nozze.
Mentre parlavano, rientrò la sorellina Silvana. Francesco al vederla sentì qualcosa di indefinito dentro di sé, si sentì attratto da quella bambina ma, non capendone bene la ragione, non diede importanza a quella sensazione. In seguito si impegnò nella ricerca di un terreno da comprare, per andarci a vivere con Lucia.
(Continua al numero successivo)