OPEROSI AL TEMPO DEL CORONAVIRUS.
RITROVARE I VALORI EDIFICANTI DEL VIVERE
Salvatore Agueci
La condizione temporanea in cui ci ha posti la Provvidenza non è un caso: è un tempo di grazia che ci aiuta a prendere coscienza sulla nostra identità, sulla collocazione nel cosmo e sulla precarietà umana.
Lasciar scorrere questo momento, che ci ha incastrati, senza soffermarci sulle opportunità è come ricevere un dono e rifiutarlo senza coglierne il senso e la relazionalità con chi ce lo offre. Ogni donazione parte dalla disponibilità di qualcuno verso di noi ed ha sempre un valore, anche se non viene immediatamente percepito, anzi considerato, a prima vista, un disvalore.
Il fenomeno che ha coinvolto l’umanità fino a diventare una pandemia, al di là dei fattori economici, finanziari, di supremazia fra le nazioni e di primogenitura (esportata o importata, i motivi veri non li sapremo mai: lasciamoli a chi vuol darsi “potere” di ogni genere), ci ha fatto scoprire quelli che sono stati e sono i limiti umani: “Il giorno in cui mangerete, morirete” (Gn 3, 1-8). Abbiamo voluto disobbedire a Dio nell’Eden, pensando di essere assoluti al posto del Creatore, abbiamo preteso di costruire metaforicamente la torre di Babele (cf. Gn 11, 4-9)) per dimostrare a noi, e forse a Dio stesso, che eravamo potenti, ma le conseguenze (la scacciata e la confusione delle lingue) ci hanno riportato sulla nostra reale dimensione umana: siamo esseri fragili e possiamo correre quanto vogliamo ma oltre uno steccato non possiamo andare. “Non andare in alto”, aveva detto Dedalo a Icaro, perché il momento in cui sarebbe andato più sù, maggiore sarebbe stato il precipizio: come avvenne.
Noi che siamo stati creati per essere socievoli e vivere la nostra corporeità nella vicinanza con gli altri, adesso, con l’isolamento e il passaggio da un dinamismo sfrenato a una riducibilità motoria forzata, ci dovremmo rendere conto quanto il distanziamento sociale sia un valore (non possiamo toccarci, baciarci, stringerci l’un l’altro dimostrando il nostro affetto) e la vicinanza abbia un’importanza che al momento ci viene negata per il nostro e l’altrui bene.
Quest’otium (alla latina: non come periodo in cui far nulla ma di occupazione diversa dal normale) che ci è imposto dalle normative vigenti, e soprattutto dalla contingenza straordinaria, deve servire all’umanità a mettere in ordine i valori, catalogarli e fare una scrematura in cui inserire quelli veri per eliminarne altri (l’attacco da parte del virus e l’inattuabilità repentina di contrastarlo, le morti dei nostri cari senza poterli assistere e dare loro l’ultimo conforto, il non poterli vedere e accompagnare nell’ultimo tragitto con un rito religioso o civile, il non poterli seppellire, lo stare distanziati gli uni dagli altri... l’impotenza), ci deve riportare su un percorso reale della vita e farci considerare ciò che è necessario da ciò di cui possiamo fare a meno per rimandarlo nei meandri più reconditi del nostro esistere: l’egoismo, l’arroganza, l’avarizia, l’ignoranza... per far posto all’affettività, all’amore fraterno, alla solidarietà, alla sopportazione reciproca, al rispetto per il nostro e l’altrui corpo, alla devozione verso il creato, all’utilizzo dei beni della terra per tutti, senza sprechi... Un valore da riscoprire, quanto attuale è, a esempio, tutelare se stessi per proteggere gli altri, sulla base del dettato evangelico: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Mc 12, 31).
Dobbiamo rievocare l’importanza dell’intimità, con noi stessi, con gli altri e con Dio, come anche quella della giusta corporeità. Per far questo è necessario dare spazio alla meditazione, alla scrittura, all’esame di coscienza, alla preghiera (interiore e collettiva anche se a distanza), alla lettura, al dialogo e alla collaborazione familiare o telefonici, attraverso i social... come spazi per far emergere percorsi da lungo abbandonati o fuorvianti, ricucire rapporti sociali messi ormai in cantina: siamo nati per amare e l’amore è l’unico a ricompensare la nostra solitudine e la paura che in questo periodo ha fatto scatenare in noi allarmismi e terrore, anche se abbiamo tirato fuori quei modi ancestrali per esorcizzarla (canti, luci, bandiere, battimano, rumori di vario genere...).
Da ciò che è negativo dobbiamo far emergere la positività contenuta per ricavarne, da uomini maturi, tutto ciò che ci rende più simili alle persone e non alle bestie. Far affiorare un cambiamento nei nostri comportamenti, un modo diverso di operare in politica, una collaborazione tra strutture sanitarie, amministrative e cittadini per il raggiungimento del bene comune e non dei singoli e questo non nel momento attuale ma in preparazione a una ricostruzione del nostro tessuto sociale che dovrà avvenire presto. Dobbiamo far emergere la speranza, non irreale, ma quella logica, che si realizza secondo categorie spaziali e temporali che richiedono il nostro contributo collaborativo. Alla speranza deve far seguito la fiducia continua e non solo quando intravediamo la luce alla fine del tunnel ma soprattutto quando, con la nostra razionalità, questa c’è impedito di scorgere, ora e subito: qualunque cosa, avviene per il nostro vantaggio.
Un’altra qualità è l’attesa. Oggi più che mai, in una società dove bruciare il tempo è importante, bisogna abituarsi a sapere aspettare: non è il tempo a nostra disposizione ma siamo noi a servizio di esso. Alcune categorie lo sanno, come la madre, il contadino, il detenuto... però è bene che tutti lo valorizzino non come tempo morto ma vitale, di ulteriore giovinezza.
Non ultima è la solidarietà, nazionale e internazionale, dimostrata attraverso la disponibilità di materiali, strutture e persone (medici e paramedici). É stata una risposta alle nostre concezioni nazionaliste e sovraniste e ci hanno dato una lezione di universalità e di fratellanza che supera i confini imposti dagli uomini meschini e di corto respiro. Allargare il nostro cuore agli altri è un dovere morale che ripaga!
È opportuno ritornare a camminare con i piedi per terra per dare il giusto valore alle cose, alle persone e al creato per apprezzare la nostra libertà e, nel nostro limite, essere creature felici che sappiano accogliere il carpe diem proiettandolo nel domani della storia e del nostro futuro, caduco ma eterno.
‘O tiempo ‘e Gesù
‘Stammatina che ffa’o tiempo?
‘Nce vò ‘o ‘mbrello ‘o ce sta ‘o sole?
Quanne passa ‘sta vernata?
Mettimmece d’accordo:
forse pe’ tropp’ anne
avimme tirata ‘a corda.
Nun se sentiva nu Natale
Neanche ‘o tiempo d’’o Presepe…
Ca ‘na vutata d’uocchie
Te truvave a Carnevale
Mentrena Pasqua
Tutt’ ‘a famiglia
Se mangiava ‘o casatiello
‘e criature già pazziavane
Cu ‘e palette e cu ‘e sicchielle.
Caro Signore,
Tu che aje criato ‘o tiempo
Te ne sì accorto pure Tu
E forse ‘e sentere ‘sti ccose
Nun de l’aje fatta cchiù.
Guagliò a mammà
Che faje ‘stammatina?
Nunvaje ‘a Messa?
Io fatico tutt’ ‘a semmana,
pure ‘a dommeneca
aggio a j’e pressa?
Io a’ Chiesa nun ce credo
E mme sento disgustato
Pecché vedo ‘a stessa ggente
Ca nunn’ è maje cagnata.
S’osservava pure ‘o tiempo
Se ti eri convertito
Comme si cu Gesù Cristo
Se jucasse ‘na partita.
Mò ca ‘o tiempo s’è fermato
‘sta vita è tutta nova
‘o vvanne truvanne à te
Pecché ‘e ccose nun stanne bbone
E … Caro Gesù,
mò sì ca tiene ‘e surdigliere
pecchè se prega assaje
sera, juorne ‘e mmatina.
Pure ‘a Mamma toja
Se sarrà emozionata
Pecché novene, fiorette ‘e rusario
Se songhe triplicate.
Mò ‘mparvise ca ‘o tiempo nun ce stà
Angelo, Sante ‘e mmuorte
Tenene ‘na domanda pronta
Caro Signore a chiste ‘ncopp’ ‘a terra
L’aje a vute a fermà ‘o tiempo
P’e ffà capì can un so nisciune?
Però quanne ‘nce ne stanne
Ca se credene qualcune
E … No!
Accussì stongo giudicanne
Comme ‘o Fariseo e faccio peccato
Penzamme ‘o pubblicano
Ca veramente s’è umiliato.
Scusa, Gesù.
So oggi aggio penzato ca ‘o munno
Era fermato
Ca nun ce stava niente à fa
Pe stu popolo perduto.
Spero ca ‘sta lezione
Tutte quante l’anno capita
Ca nun basta ‘nu rilogio
Pe’ te gstì ‘a vita
Chesta nunn’è ‘na scelta ‘e vita
Gesù è ‘na garanzia
E io mette mmane a Isse
Tutta ‘a vita mia.