Continuando il nostro viaggio alla scoperta del Concilio Vaticano II vogliamo, prima di addentrarci fra i banchi della basilica di San Pietro per seguire le varie fasi della discussione e dell'elaborazione dei documenti conciliari fino al loro esito finale, soffermarci qualche istante su di una considerazione di carattere generale, che non è affatto secondaria al fine di una valutazione oggettiva e completa dell’assise conciliare. Oltre ad essere stato un evento dottrinale e magisteriale, il Concilio Vaticano II è stato un'intensa esperienza ecclesiale. Anzi: cronologicamente e qualitativamente la dimensione esperienziale è venuta prima di tutto il resto. Ci chiediamo: cosa sperimentano di interessante e di importante i protagonisti del Concilio stesso, in primo luogo i vescovi?
Una Chiesa dal volto universale
Innanzitutto sperimentano una Chiesa dal volto universale. Mai, fino ad allora, si erano incontrati in così tanti, mai la Chiesa aveva assunto un volto tanto fortemente universale. Tutti e cinque i continenti sono rappresentati. L'America ha inviato 956 vescovi, l'Asia più di trecento, l'Africa 379. La superiorità numerica degli italiani, che ancora a Trento aveva creato tensioni, è solo un lontano ricordo: 379 vescovi, solo un quinto dei padri conciliari. L’intuito artistico di Giacomo Manzù ben esprimerà questa novità attraverso un’immagine che vede affiancati Giovanni XXIII e il cardinale africano Rugambwa. Inoltre, dopo tanto tempo, i vescovi si sentono nuovamente i maestri della Chiesa, organo vivo del magistero, partecipi del lavoro collegiale, stretti collaboratori del Papa. Le chiese locali intuiscono di poter portare il loro costruttivo contributo. I vescovi africani, ad esempio, offrono un notevole apporto sia al tema missionario sia a quello della liturgia, un contributo ben superiore a quello offerto dalle chiese europee, imprigionate troppo spesso in concezioni ancora decisamente eurocentriche.