Il Monachesimo
Nato in oriente, il monachesimo ben presto attecchì anche nelle fertili terre dell’occidente africano ed europeo. Fu il già citato vescovo Atanasio di Alessandria, esule in Europa, a diffonderne l’ideale. Ad esso si accodò ben presto un altro personaggio di grande statura ecclesiale, Girolamo, l’itinerante innamorato della Scrittura. Girolamo ha successo soprattutto sul mondo femminile romano, che già esprime molte comunità di consacrate, fondate da donne della società medio alta. Infatti, proprio attorno alla metà del IV secolo si va strutturando la liturgia della consacrazione delle vergini. L’attrattiva dell’oriente è molto forte ed ecco che alcune di queste donne seguono Gerolamo in Terra Santa, fondando lì alcuni monasteri. Ormai, però, i tempi sono maturi per le prime stabili fondazioni locali. Che, quasi sempre, si distinguono per una caratteristica particolare: aspirano ad unire vita claustrale ed evangelizzazione. Tra Europa ed Africa nasce così il cenobio episcopale. Il primo è quello fondato da Eusebio a Vercelli, in Piemonte, seguito a ruota da altre fondazioni similari: Zeno a Verona, Massimo a Torino, Gaudenzio a Novara. Ma su questo fronte l’esperienza più significativa ed anche più gravida di conseguenze è certamente quella di Agostino che, tornato convertito alla terra natia, fonda un monasterium clericorum e soprattutto si adopera ad illustrare e diffondere l’ideale monastico.
Un monachesimo a “pelle di leopardo”
Quello che fra IV e V secolo si impianta in Europa è però un monachesimo a “pelle di leopardo”. Fondazioni molteplici, locali, legate al carisma di alcune personalità, sono le caratteristiche di tale monachesimo che vive senza vere e proprie regole, accentuando la dimensione ascetica dell’esperienza monastica. I nomi e i luoghi più famosi e significativi si concentrano soprattutto nella Gallia, regione vivacissima dal punto di vista delle iniziative ecclesiali. Ecco allora Martino, vescovo di Tours, che fonda a Ligugé un monastero che si ispira ad Eusebio ed Agostino. Oppure Onorato, che sull’isola di Lerins, dirimpettaia a Cannes, dà origine al primo grande complesso monastico dell’occidente, il cui successo è dovuto anche al fatto di diventare fin da subito luogo di rifugio per la nobiltà della valle del Rodano, fuggitiva davanti all’avanzare dei nuovi popoli di stirpe germanica, burgundi in testa. In Francia opera anche Giovanni Cassiano che, grazie ad opere come le Conferenze spirituali e le Istituzioni cenobitiche, si propone come uno dei massimi teorizzatori dell’esperienza monastica. Così come opera pure Cesario, santo vescovo di Arles, che comincia a redigere vere e proprie regole, una per gli uomini e una per le donne. Cesario, infatti, ha una sorella che ne segue le orme della consacrazione religiosa. Cosa non eccezionale in quei secoli, visto che era già accaduta col grande Basilio e che si ripeterà con Benedetto da Norcia.
Il “piccolo seme” di Benedetto da Norcia
Proprio nel momento in cui in Europa si assiste al pullulare di così tante e variopinte fondazioni e si coglie l’esigenza di dare organicità alle molteplici esperienze attraverso la redazione delle prime “regole”, nell’Italia centrale germoglia quello stelo che nei secoli seguenti, per meriti propri e per circostanze storiche particolari, diventerà un grande albero capace di diffondere le sue radici e le sue fronde su tutto il continente europeo. Si tratta del monachesimo benedettino che prende forma a Cassino località a sud del Lazio, dove Benedetto, originario di Norcia, si trasferisce fondando due monasteri, uno per sé, uno per la sorella Scolastica. Quando vi arriva, nel 529, ormai quasi cinquantenne, Benedetto ha alle spalle una lunga esperienza di isolamento dal mondo nella valle dell’Aniene, pullulante di monaci ed eremiti. Deluso da quanto ha visto con i suoi occhi (i monaci di Vicovaro hanno cercato addirittura di avvelenarlo!), Benedetto desidera avviare qualcosa di nuovo e di stabile. Mentre si industria a costruire quello che diventerà la patria del più grande movimento monastico mai conosciuto non perde tempo nel redigere la Regola, che scrive ispirandosi per lunghi tratti a un precedente testo, assai conosciuto nell’Italia centrale, la cosiddetta Regula magistri. Ne viene fuori un’opera di grande saggezza ed equilibrio, che evita gli eccessi della tradizione orientale, che pur non disconosce!, e che suddivide equamente il tempo tra lavoro, preghiera, riposo. Tutti conosciamo lo slogan che fa da sintesi alla fatica del nostro autore: Ora et labora. Benedetto pone la liturgia (l’opus Dei) al centro della giornata del monaco e fa’ dello studio e della meditazione della Scrittura il punto di partenza dell’esperienza monastica. Tre sono i voti che il monaco professa, in parte diversi da quelli che si imporranno poi nella tradizione successiva. Sono il voto di conversione, quello della stabilitas loci, per cui il monaco sceglie il monastero in cui entra come sua nuova patria, e quello dell’obbedienza all’abate. L’abate è pensato, lo dice la parola stessa derivante da abbas, padre!, come ad un vero e proprio padre, mentre la comunità monastica è una famiglia regolata da rapporti di fraternità e che sa praticare l’ospitalità. L’ideale che percorre tutta quanta l’esperienza di Benedetto e della sua Regola è quello della vita messa a servizio di Cristo, nell’umiltà del lavoro quotidiano, senza bisogno di eroismi ascetici particolari. Quando muore, nel 547, Benedetto non sa certo di essere il “fondatore” di un ordine e di aver dato origine ad una delle più grandi istituzioni di tutta la bimillenaria storia della Chiesa. Però nel giro di quattro secoli la sua intuizione “conquista” l’Europa stendendo un mantello di monasteri e abbazie sulle sue latitudini e il monachesimo benedettino diventa di fatto “il” monachesimo della parte occidentale del nostro continente.
Laugero Giampaolo
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PECCARE (Michel Quoist)
Sono caduto, Signore.
Ancora.
Non ne posso più, mai ce la farò.
Ho vergogna di me, non oso più guardarTi.
Pure, ho lottato, Signore, perché Ti sapevo vicino a me, chino su di me, attento.
Ma la tentazione si è scatenata come una tempesta, ed ho voltato il capo, e mi sono allontanato,
mentre Tu restavi, silenzioso e dolorante, come un fidanzato tradito che vede il suo amore allontanarsi nelle braccia del rivale.
Quand'è cessato il vento, caduto di colpo come di colpo s'era scatenato, quando s'è spento il fulmine dopo aver fieramente illuminato la penombra, in un momento, mi son ritrovato solo, vergognoso, disgustato, con il mio peccato nelle mani.
Quel peccato che mi nausea, inutile oggetto che vorrei gettar via; quel peccato che ho voluto e che non voglio più, quel peccato che infine ho raggiunto allontanandoTi freddamente, Signore,
quel peccato che ho colto, poi consumato, avido.
Ora lo posseggo, anzi mi possiede, come la tela del ragno tiene prigioniero il moscerino.
E' mio, mi sta attaccato, è entrato in me, non posso disfarmene.
Mi pare che si veda, ho vergogna di stare in piedi, vorrei strisciare per sfuggire gli sguardi,
ho vergogna di comparire davanti al mio amico, ho vergogna di comparire davanti a Te, o Signore,
perché Tu mi amavi ed io Ti ho dimenticato. ti ho dimenticato perché ho pensato a me.
Signore, non guardarmi così. Perché sono nudo, sono sporco, sono a terra, lacero, non ho più forze,
non oso più promettere nulla, non posso che restare là, curvo, innanzi a Te.
Via, piccolo, rialza il capo. Non è soprattutto il tuo orgoglio ferito?
Se mi amassi, avresti dispiacere, ma avresti fiducia.
Credi che l'amor di Dio abbia limiti? Credi che un solo momento Io abbia cessato di amarti?
Ma fai ancora affidamento su di te, piccolo, non devi fare affidamento che su di Me.
Chiedimi perdono e poi rialzati vivamente, perché, vedi, la cosa più grave non è cadere, ma restare a terra.