GLOBALIZZAZIONE E PROBLEMI MORALI
Il fenomeno che caratterizza la seconda metà del Novecento e anche gli anni che stiamo vivendo è quello della globalizzazione. Questo termine nasce in ambiente economico per indicare che la nuova economia, favorita dallo sviluppo dei mezzi informatici e di internet, ha rapidamente assunto dimensioni mondiali (sconvolgendo e a volte travolgendo le povere economie locali) ma ormai riguarda tutti gli aspetti della vita delle persone coinvolgendo le stesse condizioni della nostra esistenza e il modo in cui viviamo, interessa e cambia cioè gli stili di vita delle persone: qualcuno ha detto che un giovane giapponese di oggi assomiglia più ad un suo coetaneo americano o europeo, che ai suoi genitori o ai suoi nonni.
Sarebbe necessario trovare un giusto equilibrio tra le tradizioni e le culture dei vari popoli (localismo) e l’internazionalizzazione dei commerci e delle idee (globalismo) per evitare la cancellazione totale delle differenze e l’affermarsi del ‘pensiero unico’, ma anche la chiusura acritica e il rifiuto pregiudiziale a ciò che di buono può venire dal dialogo e dal confronto tra le culture e gli individui. Il problema di fondo dunque è: che rapporto c’è tra la libertà dell’individuo di fronte a ciò che è nuovo e diverso da sé e le tradizioni della comunità di appartenenza (che tende a difendere la propria specificità, la propria identità)? La riflessione filosofica ha cercato di affrontare questo nodo e i pensatori di questo periodo (seconda metà del Novecento) si sono concentrati soprattutto sui concetti di libertà e di giustizia e sul rapporto tra individuo e stato. Possiamo distinguere due principali gruppi di pensatori: i libertari e i comunitari
Libertari
Alcuni di essi (fra cui citiamo l’americano Robert Nozick) partendo da un concetto di libertà intesa come assenza di costrizioni, hanno sostenuto che gli individui prevalgono sulla società, hanno diritto di perseguire liberamente i propri piani di vita: lo Stato dunque deve intervenire il meno possibile nella vita individuale (Stato “minimo”), limitandosi semplicemente a far rispettare le leggi e punendo chi non le rispetta. Secondo questa posizione, lo Stato non deve fare politiche solidaristiche che servano ad aiutare le persone svantaggiate, non deve cioè costringere alcuni cittadini più ricchi ad aiutare (ad esempio pagando più tasse) i più poveri; deve, al contrario, essere assolutamente neutrale nei confronti dei suoi cittadini che devono essere lasciati completamente liberi di tentare di attuare la propria individuale visione della vita.
Altri pensatori hanno invece cercato di conciliare il concetto di libertà con quello di equità (giustizia). Secondo il filosofo politico statunitense John Rawls ad esempio, due sono i principi di giustizia fondamentali cui occorre fare riferimento: il principio dell’uguale libertà (per cui a tutti devono essere garantite le libertà fondamentali: diritto di voto, di parola, di riunione, di pensiero, di religione, di coscienza, di proprietà dei beni personali) e il principio di differenza (secondo cui la società nel suo complesso deve “riparare le differenze” occupandosi dei più poveri e sfortunati).
Comunitari e neorepubblicani
Questi pensatori (in particolare l’inglese Alasdair McIntyre) sostengono che la libertà non è qualcosa che riguardi esclusivamente i singoli individui, ma è un concetto che va collegato con il contesto socioculturale in cui gli individui vivono e agiscono. In altri termini: più importante degli individui è la comunità sociopolitica alla quale essi appartengono. E’ la comunità che plasma l’identità delle persone ed è quindi una falsa libertà quella di chi con i propri comportamenti e le proprie scelte non rispetta le leggi e i valori condivisi dalla propria comunità. Ecco quindi che riappare il problema sopra evidenziato: è sempre possibile conciliare la libertà dell’individuo con le tradizioni e le norme etiche della comunità di appartenenza?
Questo dilemma sembra essere in qualche modo risolto da una ulteriore corrente di pensiero (definita neorepubblicanesimo) il cui maggiore esponente è il filosofo canadese Philip Pettit; egli, richiamandosi agli antichi ideali della repubblica romana, elabora un concetto di libertà collegata ad un concetto di stato che eserciti un potere non arbitrario in modo tale da promuovere non il benessere di chi detiene il potere, ma quello della collettività. La libertà, cioè, “può essere goduta dai singoli individui solo nella misura in cui è un bene goduto dai gruppi cui questi individui appartengono”. In altri termini: la libertà deve essere concepita come bene comune da promuovere a vantaggio di tutta la società.
Sviluppo scientifico e destino dell’uomo. La bioetica
Simili discussioni possono apparirci astratte ma in realtà esse riflettono i principali problemi con i quali noi uomini oggi dobbiamo concretamente e quotidianamente fare i conti: incontro-scontro tra culture e religioni diverse, crisi dei valori tradizionali, affacciarsi di nuove istanze (pretese?) presentate come nuovi diritti, disuguaglianze socioeconomiche non colmate, rapporto tra sviluppo tecnologico e scientifico e salvaguardia dell’ambiente e sopravvivenza stessa dell’umanità.
In particolare, occorre rendersi conto che proprio il continuo sviluppo che si registra in medicina e in biologia, pone delicati e fondamentale problemi morali che non è possibile ignorare. La domanda da porsi è: è moralmente lecito fare (o anche solo approvare) tutto ciò che è tecnicamente possibile?
La scienza del nostro tempo sembra avere come principale oggetto di studio l’uomo stesso: sull’uomo si concentrano tecniche di sperimentazione e (purtroppo) di manipolazione che sembrano mettere in questione l’idea stessa di natura umana così come era stata finora intesa (ideologia del trans-umanesimo). Non è possibile disinteressarsi del lavoro degli scienziati e rinunciare a riflettere su questioni che hanno un grande valore umano e sociale come l’aborto, l’eutanasia, la diagnosi prenatale e le conseguenti possibili scelte eugenetiche, il prolungamento della vita, la manipolazione genetica (non solo dell’uomo) compresa la clonazione, la procreazione artificiale, la definizione del concetto di morte. Siamo nel campo di quella che viene definita ‘bioetica’, scienza nata negli anni Settanta che si interroga sulla liceità di quelle pratiche mediche e biologiche cui sopra abbiamo fatto riferimento: in questo ambito ogni comportamento, ogni scelta, ogni presa di posizione ha una profonda valenza morale, in quanto coinvolge l’idea stessa di vita umana.
Negli ultimi decenni, a partire dagli anni Settanta, lentamente, ma inesorabilmente al concetto di sacralità della vita (che è l’unico al quale noi cristiani dobbiamo fare riferimento) viene sostituito quello di qualità della vita: se i temi bioetici si affrontano solo da quest’ultimo punto di vista, allora può sembrare legittimo l’abbandono della cura del paziente gravemente disabile o inguaribile, addirittura la soppressione di persone ritenute non compatibili con un determinato (da chi?) livello di qualità dell’esistenza. I recenti casi di bambini gravemente disabili di fatto soppressi nell’ambito del sistema sanitario inglese (Charlie, Isahiah, Alfie) –oltretutto contro il parere dei genitori ai quali è stato impedito di esercitare responsabilmente la loro potestà– hanno colpito profondamente buona parte dell’opinione pubblica, pur se i grandi mezzi di comunicazione se ne sono occupati solo marginalmente e spesso capziosamente. Questi (e purtroppo molti altri) bambini e le ormai decine di persone anziane e malate, lasciate morire o concretamente ‘aiutate’ a morire in molti ospedali della stessa Inghilterra, ma anche del Belgio, dell’Olanda e di altri paesi, come ad esempio anche il Canada, testimoniano che il concetto di sacralità –ma anche solo di rispetto– della vita umana è superato, in nome di una ‘qualità’ della vita che si presume insostenibile, ma probabilmente soprattutto in nome dei costi elevati che il mantenimento delle cure comporta (ma anche se i genitori di Alfie avevano raccolto una notevole somma, il figlio gli è stato sottratto ed eliminato per stabilire un principio).
Il problema vero è in realtà uno solo: esistono o no dei valori assoluti in riferimento ai quali porsi dei limiti, regolare scelte e comportamenti? Noi crediamo fortemente di sì: per questo l’anno scorso nel nostro giornalino abbiamo nuovamente preso in esame e passato in rassegna i “valori non negoziabili”, i principi etici dai quali ogni uomo (volutamente diciamo ‘ogni uomo’ e non ad esempio ‘ogni cristiano’) non può prescindere. A quegli articoli facciamo ancora una volta riferimento. Sappiamo bene che non tutti sono d’accordo: sappiamo, cioè, che la cosiddetta ‘bioetica laica’ parte dal presupposto che i valori non sono mai assoluti, ma sono il frutto dei contesti storici e sociali, che variano nel tempo e nello spazio, sono cioè ‘relativi’: quando le norme non riescono a garantire una soddisfacente qualità delle vita, vanno cambiate. Ripetiamo: non è così, e sappiamo di essere nel vero, anche se siamo consapevoli che forti pressioni mediatiche e culturali agiscono sulle persone inducendole ad accettare quasi senza rendersene conto innovazioni tecnologiche e conseguenti comportamenti che, al loro primo apparire, erano stati giudicati aberranti ma che, con il passare del tempo, diventano via via più familiari e, per così dire, ‘normali’. Occorre essere vigili per non lasciarci travolgere da questo che è stato definito ‘slittamento morale’.
Si tratta, come si vede, di problemi di grande importanza, che coinvolgono l’intera nostra vita e ci interpellano profondamente. Non possiamo disinteressarcene, ma per affrontarli e comprenderli dobbiamo fare riferimento a quelli che sono i nostri valori di fondo: la ‘sacralità della vita’ è per noi cristiani un principio dal quale non possiamo discostarci senza tradire quella che sappiamo essere la verità fondamentale: l’unico Autore della vita è Dio, Signore del mondo, che ci ha creati e continuamente ci crea a sua immagine e somiglianza.
A cura di Antonio e Antonella