SANTA GEMMA GALGANI (1878-1903):
ICONA DELLA SOFFERENZA AMOROSA
Mario Scudu sdb
Dolore, sofferenza, morte: vivere o anche solo parlare di queste realtà così universali e così inevitabili, significa fare un’esperienza anzi l’esperienza umana per eccellenza di fronte alla quale non è più possibile eludere l’urgenza della serietà e della consistenza personale. Realtà universali: tutti, prima o poi, da giovani, meno giovani o da vecchi, ci passiamo.
Anche se per qualcuno il dolore e la sofferenza sembrano essere il pane quotidiano della propria esistenza, a differenza di altri. È proprio vero però che davanti a questa realtà, e nel momento in cui bussa alla nostra porta siamo chiamati a dare il meglio di noi stessi. E a riflettere più profondamente. A interrogarci più spesso.
A pregare di più. Perché il dolore è una realtà enigmatica, che angoscia e inquieta, che può portare alla solitudine esistenziale e alla disperazione, alla rivolta contro Dio e alla sua negazione.
È soprattutto la presenza del dolore innocente che lascia perplessi e invita alla ribellione.
Come conciliare i termini apparenti inconciliabili di un bambino innocente (o di 27 bambini innocenti e della loro maestra che perirono nel crollo della scuola durante il terremoto del novembre 2002 nel Molise?) e la presenza di un Dio Amore, di un Padre nei cieli “che veste anche i gigli dei campi” ma che sembra sordo e muto davanti al dolore degli innocenti? È l’eterno interrogativo di Giobbe, il giusto per eccellenza nella morsa del dolore. È da 2000 anni che anche il Cristianesimo dà la risposta già contenuta nel Vangelo.
Ha scritto Paul Claudel:
“A questo terribile problema, il più antico dell’umanità ed al quale Giobbe ha dato la sua forma ufficiale e liturgica, solo Dio, direttamente richiesto e sollecitato era in grado di rispondere. E l’interrogativo era così enorme che solo il Verbo poteva soddisfarlo dando non una spiegazione, ma una presenza...”.
Dio davanti al dolore non ci ha inviato un bel volume, con i suoi aspetti filosofici o psicologici, non un trattato di sociologia della sofferenza ma una presenza, anzi la Presenza: Se Stesso, nella Persona del Figlio Gesù Cristo, l’Innocente per eccellenza. Egli affrontò il dolore e la morte nell’assoluta dedizione e affidamento al Padre e al suo disegno e mistero di amore.
Per il Cristianesimo, il dolore e la sofferenza del giusto accettata per amore e vissuti nell’amore, hanno il valore di prova, di purificazione, di buon esempio per gli altri e di compartecipazione al dolore salvifico della Croce di Gesù Cristo.
“La povertà della croce manifesta, infatti, la vera natura del Dio cristiano: la pro-esistenza, il suo essere puro dono. La sofferenza acquista in tal modo un senso non per se stessa, ma in quanto è atto di amore: è il segno di un amore tanto grande da trasformare colui che ama in un essere-totalmente-per-gli-altri. Passando «dentro» la sofferenza umana, assumendola su di sé fino all’atto supremo della morte, Gesù ha inaugurato una speranza che non muore” (G. Piana).
Conoscenza amorosa di Gesù Crocifisso
Nella breve vita di Gemma Galgani abbiamo tutti questi elementi: tanti lutti e malattie, tanta sofferenza psicologica e fisica, ma anche tanto amore e tanta unione e compartecipazione al dolore salvifico del Cristo Crocifisso, fino alle stigmate stesse, come segno visibile di accettazione amorosa della Passione. Gemma nacque il 12 marzo 1878 a Borgonuovo di Camigliano (Lucca) in una famiglia numerosa. Ben presto la piccola conobbe il dolore per la morte della mamma Aurelia, donna di grande fede, nel settembre del 1886. Ricevette la Prima Comunione all’età di 9 anni (inusuale per quei tempi) e per lei fu un’esperienza sconvolgente e determinante. Aveva capito che la sua esistenza sarebbe stata segnata dalla profonda unione con Gesù, e questi Crocifisso. Ma dopo il dolore della perdita della cara mamma arrivò la morte del fratello Gino, seminarista, di 18 anni e anche lei si ammalò gravemente. A 16 anni cominciò ad avere le prime visioni di Gesù e del suo angelo custode. Scrisse: “Cominciò in me anche un altro desiderio: sentivo crescere in me la brama di patire e aiutare Gesù Crocifisso”.
Questo “aiutare Gesù Crocifisso” lo fece nei restanti 9 anni di vita con innumerevoli malattie fisiche, incomprensioni familiari, prese in giro dei benpensanti (e ignoranti), diffidenza e dubbi presso molte persone (anche del clero), e lutti familiari. Nel 1897, perdeva il padre, uomo buono e caritatevole, ingannato nella sua attività di farmacista e ridotto in povertà. Moriva lasciando una numerosa famiglia, prontamente aiutata dalle zie. Gemma dovette andare a Camaiore da una di queste, Carolina Lancioni.
Aveva ormai 20 anni e non passava certo inosservata. Era infatti un ragazza bella, dagli occhi dolci e penetranti (come si vede dalle foto conservate). Ci fu anche un bravo giovane che se ne innamorò. Non ci fu un seguito, perché ormai pensava ad un altro matrimonio, quello mistico. Intanto soffriva di forti dolori alla schiena e ai reni. Lasciò la zia e tornò a casa, a Lucca, sperando in un miglioramento ma invano. Anzi ci fu un peggioramento. Arrivò l’incurvamento della colonna vertebrale e la meningite, ma anche se il suo corpo diventava sempre più debole, il suo spirito era sempre più forte. Nonostante queste sofferenze continuò normalmente nelle faccende di casa. Ma la malattia non le davano alcuna tregua.
Anzi ad un certo punto, il 2 febbraio 1899, i medici la dettero per spacciata. Solo pochi giorni di vita. Invece guarì miracolosamente per intercessione di Santa Margherita Alacoque. L’8 giugno ebbe una visione di Gesù, di Maria e dell’angelo custode.
Maria le disse:
“Gesù, mio Figlio, ti ama tanto e vuol farti una grazia”. Infatti “dalle ferite di Gesù – raccontò ella stessa – non usciva più sangue ma come fiamme di fuoco che... vennero a toccare le mie mani, i miei piedi, e il mio cuore”. Era la grazia delle stigmate. La visione del Cristo sofferente e l’esperienza delle stigmate si ripeterono anche in seguito dal giovedì fino al venerdì alle 3 del pomeriggio. I dolori erano fortissimi, il suo amore di compartecipazione alla Passione era totale e la gioia e la pace perfetta che ne seguivano, indicibili e indescrivibili. Il 17 luglio 1900, arrivò anche il dolore per la coronazione di spine ed il 7 febbraio 1901 anche quello della flagellazione.
Intanto, i rapporti di Gemma con i familiari diventavano sempre più difficili. Non le credevano affatto, anzi la spiavano addirittura (credendo che si procurasse le ferite da sola) e la maltrattavano. Venne anche chiamato un famoso psichiatra per esaminarla. La conclusione fu: isterismo. (Anche lo psicologo che esaminò Padre Pio... alla fine concluse: isterismo! E sono ambedue santi). C’era molta diffidenza attorno a lei, la “povera Gemma”. Anche il clero della città (subito dopo la morte) non credeva alla sua santità e ai fenomeni soprannaturali. Per alcuni suoi concittadini era “la ragazza della grazia”. Per tanti altri, increduli (avevano parlato gli psicologi, dunque...) era solo una povera ragazza. Gli ultimi tre anni della sua vita Gemma li passò in casa di Cecilia Giannini.
Questa donna straordinaria, madre di una numerosa famiglia che soleva ospitare i Padri Passionisti di passaggio a Lucca la invitò alcune volte a casa sua, finché propose al fratello e sorella di ospitarla stabilmente. Disse loro: “Iddio mi ha posto nelle mani quest’angelo che voi vedete qui. Or non potrebbe rimanere con noi? Abbiamo undici figli in casa; che vorrà essere uno di più?”. Parole dettate dalla grande fede e dalla sua grande generosità. E Gemma rimase, accolta con amore e ben voluta da tutti. Aiutava nelle faccende di casa, irradiando sempre intorno a sé un’aria di gioia e di serenità. La signora Cecilia addirittura volle che dormisse nella sua camera diventando così testimone delle conversazioni di Gemma con il suo angelo custode, nonché della dolcissima fragranza che si spandeva nella camera per la presenza angelica (in un primo tempo Cecilia credeva che fosse del profumo comprato da Gemma...).
Nel maggio del 1902 si ammalò di nuovo gravemente. Intanto nello stesso anno le morirono la sorella Giulia e il fratello Tonino. Finché nel gennaio del 1903 per ordine del medico (che aveva paura di contagio) fu trasferita in un appartamento preso in affitto dalla zia Elisa.
Gemma sperimentava così anche l’esperienza dell’abbandono e del silenzio di Dio. Fortemente tentata dal demonio, non smarrì mai né la fede, né la serenità... né la pazienza. Rimase sempre piena di amore e di riconoscenza verso chi l’assisteva. Si addormentò nel Signore il Sabato Santo, nel pomeriggio, quando le campane di Lucca annunciavano la Risurrezione del Signore, di cui lei aveva condiviso il dolore della Passione. Fu canonizzata da Pio XII il 2 maggio 1940.
Un grande scrittore e filosofo, Soeren Kierkegaard, nell’opera L’inquietudine della Fede ha scritto:
“Quando il testimone della verità arriva alla morte, egli dice a Dio:“Grazie, grazie per tutte le sofferenze. Grazie a Te, o infinito Amore”. E Dio a sua volta gli risponde: “Grazie, amico mio, per quell’uso che ho potuto fare di te”. Possiamo immaginare che Gesù avrà detto a Gemma queste stesse parole, appena in Paradiso: “Grazie, amica mia, per la tua compartecipazione ai miei dolori per la salvezza di tutti”.