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GIUGNO 2009

     

 

Io sono la via.

Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me

 

Relazione tenuta a Collevalenza al Convegno annuale dei LAM da

Mons. Nicola Filippi

 

            È esperienza comune che la vera conoscenza di qualcuno non si limiti semplicemente nell’apprendere il nome ed altri dati utili per classificare la persona, potremmo in questo caso dire al massimo che abbiamo una conoscenza superficiale o di vista. Al contrario si conosce un uomo o una donna quando oltre al nome siamo entrati nel suo cuore, apprendendone i sentimenti e i desideri, sapendo quello che il nostro interlocutore ama o detesta. Sicuramente uno dei maggiori desideri dell’uomo è quello di conoscere Dio, non soltanto di arrivare ad affermarne l’esistenza – la storia del pensiero filosofico è costellata di questi tentativi, – ma soprattutto di conoscerne la sua realtà più intima. In un tempo come il nostro segnato da un forte soggettivismo, ciascuno si reputa capace di conoscere da solo, in piena autonomia e senza il bisogno dell’aiuto di altri, chi sia Dio e quali siano i segreti del cuore. Poiché il soggettivismo ha come prima inevitabile e logica conseguenza il relativismo per il quale “le verità vibrano in dimensioni molteplici, inaccessibili a ogni prova definitiva” (Steiner. Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, 38) è evidente che ci troviamo davanti a una pluralità di dei. Tuttavia per definizione la verità non può che essere una e dunque si pone questa domanda: esiste una via certa, sicura, unica per conoscere Dio?

            Si può così immaginare quanto siano ostiche per la cultura odierna le parole di Gesù riportate dall’evangelista Giovanni: “Io sono la via… Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6) che possiamo considerare una risposta all’interrogativo precedente. Infatti in esse cogliamo la pretesa esclusiva di Gesù, e di conseguenza della fede cristiana, che la conoscenza di Dio passi soltanto attraverso l’adesione a lui percorrendo quella via che è egli stesso. Un famoso esegeta sostiene che, nella frase “Io sono la via, la verità, la vita” l’accento è posto sull’affermazione “io sono la via”(Schnakenburg, Il Vangelo di Giovanni III, 108) e che le parole di Gesù esprimono tutta la loro forza a cominciare dall’espressione “io sono” che richiama la rivelazione che Dio aveva dato di sé nel Vecchio Testamento, in particolare a Mosè sul monte Oreb quando disse: “Io sono colui che sono” (Es 3,14).

            La certezza che solo attraverso Gesù si possa conoscere il Padre pervade tutto il quarto Vangelo a cominciare dal prologo, nella cui conclusione leggiamo: “Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,14). In realtà l’ultimo verbo alla lettera dovrebbe essere tradotto: “lo ha spiegato in dettaglio, ne ha fatto l’esegesi”. Dio che nessuno conosceva è stato esposto, descritto e spiegato da Gesù che, come un sapiente e saggio maestro, prende per mano l’uomo e lo introduce nel mistero di Dio. Il verbo usato dall’evangelista ha anche il significato di “narrare”: comprendiamo, dunque, la necessità di saper ascoltare colui che essendo la Parola è il solo abilitato a raccontare il Padre perché “le cose che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me” (Gv 12,50). In un tempo come il nostro nel quale si è spesso sommersi dalle parole la capacità di ascolto diventa sempre più difficile. Infatti essa presuppone un atteggiamento attivo nei confronti della parola che si riceve, di ricerca del senso e di successiva adesione a quello che si è ricevuto. Ma come fare ad essere certi che colui che parla è realmente Gesù di Nazaret, il Verbo che si è fatto carne, colui che ci “ha chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15)?

            La risposta la troviamo solo nell’appartenenza alla Chiesa, che è il corpo di Cristo, anche perché “così come il capo e le membra di un corpo vivo pur non identificandosi sono inseparabili, Cristo e la Chiesa non possono essere confusi ma neanche separati, e costituiscono un unico “Cristo totale” (Dominus Iesus, 16). Pertanto la comunità cristiana è il luogo nel quale l’uomo può realmente incontrare Gesù Cristo, il quale continua “la sua opera di salvezza nella Chiesa e attraverso la Chiesa” (Dominus Iesus, 16). Volendo essere autonomi rischieremmo, invece, di crearci un nostro Gesù, plasmato sulla nostra personalità, e dunque avere una conoscenza del mistero di Dio non oggettiva. Mi sembra di poter cogliere a questo punto una prima traccia per la riflessione dei vostri lavori: quale posto occupa l’ascolto della Parola di Dio nella mia vita personale e nell’esperienza di Chiesa che io vivo? Quale ruolo occupa il magistero della Chiesa che, come insegna il Concilio Vaticano II, insegna autenticamente, ossia con l’autorità di Gesù, il Vangelo?

Il modo verbale che l’evangelista usa del verbo narrare nel prologo è l’aoristo, che esprime l’aspetto momentaneo, puntuale dell’azione. Dunque, la narrazione di Dio da parte di Gesù è avvenuta in un momento ben preciso della storia – nella pienezza dei tempi direbbe l’apostolo Paolo (cfr Gal 4,4) – e soprattutto è stata definitiva. Ciò del resto è ribadito con chiarezza dal Concilio quando afferma che Cristo “è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (Dei verbum, 2). Questa lontananza nel tempo dell’evento rivelativo non significa però distanza dal nostro oggi. Infatti, con la sua risurrezione, che come ha ricordato il Santo Padre il giorno di Pasqua “non è un mito né un sogno, non è una visione né un’utopia, non è una favola, ma un evento unico ed irripetibile”, Gesù Cristo si rende presente all’uomo di ogni tempo e continua la sua narrazione del mistero del Padre.

Questa narrazione avviene, come del resto tutta la rivelazione, non solo con la parola ma anche con le azioni. Infatti, l’agire concreto rivela spesso molto più delle parole o quanto meno le illumina e consente di comprenderle meglio. Del resto, poi, se come dicevano i medioevali l’agire è conseguenza dell’essere, noi dall’operare possiamo risalire ai tratti salienti della personalità dell’uomo, a quanto è presente nel suo cuore. Dunque per entrare nel mistero del Padre, che è il Dio creatore e redentore, il Dio che si coinvolge nella storia e la redime è necessario osservare anche l’agire di Gesù. Infatti: “in verità, in verità vi dico: il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che Egli fa, anche il Figlio lo fa” (Gv 5,19). Esiste, dunque, una profonda consonanza fra l’agire di Gesù e quello del Padre, in modo che l’operare di Cristo ha una valenza realmente teologale, ossia capace di indicare Dio. Per questo l’Apostolo Paolo può dire che “egli è l’icona del Dio invisibile” (Col 1,15).

È questo un punto particolarmente difficile da accettare per la mentalità corrente, che tende a considerare ciò che si vede come reale, avendo smarrito la capacità di cogliere anche una eventuale realtà che è oltre quello che cade sotto i sensi. Applicando questo moderno  modello interpretativo della realtà all’agire di Gesù di Nazaret, le sue opere manifesterebbero esclusivamente se stesso e nessun altro. Ci troviamo nella stessa situazione della folla dopo la moltiplicazione dei pani, quando nella sinagoga di Cafarnao venne rimproverata da Gesù: “voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (Gv 6,26). In questa affermazione non è secondario soffermarsi sul verbo che l’evangelista adopera. Giovanni usa tre voci verbali per vedere: in particolare quella usata in questo caso ha il significato del vedere della fede. Gesù rimprovera i Giudei di essersi fermati semplicemente al fatto di aver mangiato e di non aver invece compreso che dietro a quel pasto c’era una realtà più profonda. In una parola hanno visto semplicemente con gli occhi della ragione.

Per poter capire chi Gesù realmente sia: “la via, la verità, la vita” (cfr Gv 14,6) come egli stesso si definisce, serve, dunque, un nuovo modo di guardare alla sua persona. È necessario uno sguardo più profondo, quello che nasce dall’amore per la persona che si ha davanti e che si tramuta in conoscenza. È per questo che Gesù a Filippo, il quale gli chiedeva di mostrargli il Padre, risponde: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Anche qui è un vedere oltre l’apparenza, è uno scorgere in profondità. Assai opportunamente commenta Schnackenburg: “La breve frase è formulata in modo che i futuri credenti si sentano chiamati in causa da queste parole. Nel rimprovero a Filippo sono ammoniti a non cercare speciali esperienze visionarie di Dio, un’unione diretta con Dio, ma ad attenersi nella fede soltanto a Gesù e alle sue parole” (Il Vangelo di Giovanni III, 115). Mi sembra un commento appropriato per un tempo come il nostro nel quale assistiamo a un risveglio religioso che nega la profezia della morte di Dio avanzata da Nietszche. Questa ricerca del sacro e della trascendenza, che contraddice le affermazioni di Hitchens ed altri per i quali la religione sarebbe un retaggio preistorico o un tentativo puerile di rispondere al bisogno di emozioni, scade spesso nella magia o in forme di religiosità nelle quali al centro sono i sentimenti e le emozioni personali – pensiamo alla new age – che rischiano di far diventare il mio io, il Dio di cui sono alla ricerca. La persona di Gesù – non dimentichiamo che il Verbo si è fatto carne, diventando così mediatore fra Dio e l’uomo – mi sembra una grande opportunità che il cristianesimo ha per aiutare gli uomini di questo nostro tempo a recuperare un giusto rapporto con Dio. Infatti, nulla vi è di più umano che il cristianesimo proprio a motivo di Gesù: una seconda indicazione di lavoro può essere quella di individuare le tracce più opportune per presentare Gesù come l’unica via per conoscere Dio in un contesto, come quello prima descritto, di riscoperta della trascendenza, sottolineando l’umanità che lo caratterizza come strumento per avvicinarlo a noi e la divinità che ci assicura la sua intimità con il Padre.

Questo nuovo sguardo su Gesù di Nazaret possiamo averlo attraverso la fede, che nasce non tanto dallo studio di un testo di teologia o dalla lettura di un libro di spiritualità, quanto da un’esperienza, da un incontro che vivo in prima persona, e che si realizza innanzitutto nel Battesimo. Commentando la conversione di San Paolo, Benedetto XVI diceva: “il Cristo risorto appare come una luce splendida e parla a Saulo, trasforma il suo pensiero e la sua stessa vita ... Nella Chiesa antica il battesimo era chiamato anche “illuminazione”, perché tale sacramento dà la luce, fa vedere realmente” (Roma, 3.9.2008). Nella nostra vita personale si tratta, dunque, non di conquistare questa luce quanto invece semplicemente di custodirla e conservarla. Non a caso il Signore raccomanda ai suoi discepoli di rimanere, di dimorare in lui (cfr Gv 15,4) attraverso l’osservanza dei comandamenti (cfr Gv 15,10), in particolare quello dell’amore reciproco (cfr Gv 13,34), che il Signore non esita a definire nuovo. Questa novità si colloca non tanto sul piano del fare un qualcosa che non apparteneva alla tradizione di Israele – l’amore per il prossimo era prescritto anche nel Vecchio Testamento (cfr Lev 19,18) – quanto invece nella motivazione: il “come io” di cui parla Gesù sarebbe più giusto tradurlo con un “perché”. Dunque, “l’esperienza dell’amore di Gesù è presupposto e impulso di un amore che proprio per questa esperienza è nuovo” (Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni III, 91).

Si tratta, quindi, di maturare una consapevolezza sempre crescente che non siamo il frutto del caso o dell’evoluzionismo ma, come ha ricordato il Santo Padre all’inizio del suo ministero, “Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario” (Roma, 24.4.2005). Ritengo che la contemplazione del Crocifisso, nel quale questo amore si rivela in pienezza, sia essenziale per poter poi vivere una vita nell’amore.

A chi lo ama e osserverà la sua parola Gesù promette: “il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). In questo modo il credente è introdotto definitivamente nella comunione con Dio e può così sperimentarne la vita, come dice Gesù: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato Gesù Cristo” (Gv 17,3).

 Possiamo così individuare una terza pista di riflessione per i lavori di gruppo che seguiranno: l’esperienza dell’amare come Cristo come via privilegiata per avere accesso a Dio.

 


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Ultimo aggiornamento: 12 novembre 2021
 
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