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OTTOBRE 2013

     

Entrare a messa
com'è difficile com'è bello

Egidio Barghiglioni

chiesa

In una chiesa cattolica è facile entrare perché nessuno ti chiede niente. Anzi una chiesa te la trovi sotto casa a portata di mano come fosse tua. La parrocchia. Sempre aperta sempre a disposizione, la piccola meraviglia del mondo cattolico. A qualsiasi ora puoi bussare puoi chiamare farti ascoltare farti invitare a pranzo farti dare un letto. Telefonare quando vuoi, citofonare quando ne hai bisogno: per un bambino per un malato per un moribondo. Di giorno di notte di festa, sempre. A differenza dei servizi dello stato, la parrocchia non chiude mai, non si rifiuta mai, non ti abbandona mai.
Ho trascorso trentadue anni in parrocchie romane (Prenestino, Pietralata, Gianicolense) e il sorriso l'amicizia e il fervore mi accompagnavano dalla mattina alla sera.
Una o due per ogni quartiere, le parrocchie affacciano sulla strada. Il loro genio è stare lì piantate come un gazebo esposto a tutte le correnti: pronto a riparare tutti e a far posto a tutti senza iscrizioni senza tasse sui sacramenti senza tariffe per le messe. Un polmone che respira con il fiato di chiunque: che creda o meno, che frequenti o no. Stare con tutti, avvicinare tutti, andare da tutti é la vocazione e la gloria della parrocchia.
Ma proprio perché è facile entrarci, in una chiesa cattolica, sarà poi difficilissimo entrare a messa. Entrare a messa? E che vuol dire entrare a messa?
Per spiegarmi ho bisogno che tu mi segua, anzi che tu capisca la mie stesse difficoltà, i tanti errori che ho commesso e le mille strade che ho percorso prima di ammettere che entrare in una messa è un impegno arduo. Stavo per dire impossibile. Come si fa a chiedere una cosa del genere a gente come noi? Me lo domando ogni volta che salgo sull'altare e mi volto in giro. Meglio che non ce ne rendiamo conto, dico fra me e me.
Ma non voglio anticipare le cose.
Le campane che suonano, il sole che inonda San Rocco, le cornici dorate che tutt'intorno prendono fuoco, le tele dei santi che si animano. Stiamo per iniziare la messa. Facciamo un cerchio sotto la cupola piccola e affusolata come un fagiolo, ci guardiamo ci sorridiamo. Siamo sulla soglia della messa ma all'improvviso a me prende lo sconforto. È come se mi trovassi di colpo sull'ultimo gradino e una porta un'enorme porta mi si parasse davanti. Che faccio. Che significa. Dovrò forse aprirla questa porta, dovrò spingerla con tutte e due le mani, dovrò scostarla piano piano, dovrò farci capoccella timido timido? Così. Così da potermi inoltrare intrufolarmi andare di là. Di là. E cosa ci sarà di là?
Mi hanno sempre detto ripetuto e insegnato che di là mi aspetta un mondo diverso dal mio, un'altra terra, un'altro firmamento. Puro innocente leggero libero. Mio Dio e come farò a frequentarla questa regione, io che sono così aggressivo così ansioso a volte così esasperato. Chi mi darà mai il coraggio di fare un passo così?
Il primo impulso è no non ce la faccio non è per me sarebbe troppo. Lascio, perdonatemi, vado. Mi viene voglia di allontanarmi senza far rumore. Poi.. poi sento l'organo che intona una frase, un rigo musicale che mi arresta: tendo l'orecchio mi fermo lascio che quel suono penetri dentro di me.

kyrie
Kyrie eleison. Più che una preghiera un'invocazione una supplica che dico un grido un urlo: forte straziato e poi sempre più afono, dolcissimo. La liturgia latina non osò toccarlo, tanto quei due vocaboli greci proibivano ogni traduzione e ogni interpretazione. Un gioiello: duro finito compatto, senza passaggi e senza fessure. Sacro inaccessibile, aveva tutto concludeva tutto. Kyrie eleison. Secondo me la nuova liturgia in questo caso dovrebbe tornare sui suoi passi e lasciarlo, quel gioiello, nello splendore della lingua greca.
Kyrie eleison. Inizia sommesso dal fondo e dalle righe più basse del tetragramma, si alza come un sospiro e quasi non ha il coraggio di uscire. Mi trovo qui, come mi vedi come mi senti; non so se hai saputo, chissà se ce la faremo, il primario ieri scuoteva la testa. Forse solo Lui (hai capito chi?) solo Lui potrebbe sentirmi, solo Lui potrebbe allungarmi una mano o solo a Lui verrebbe voglia di buttare gli occhi su di me; farci caso, a me.
Kyrie. E quell'eleison che si snoda come un nastro un serpente luminoso un fluido che mi avvolge mi circonda si insinua. Mi entra in bocca e mi si perde in pancia sempre così dura per l'ansia. Prendo forza mi sto rianimando, forse ce la faremo, oggi ci hanno dato buone speranze, ieri sembrava tutto finito.
Christe: grido tendo le mani le allungo le costringo come un artiglio vuoto. Abbiamo un'ultima possibilità, vediamo domani cosa dice la tac. Vuoi sapere che faccio in quel momento? Faccio tutto. Tempesto di pugni una porta immaginaria, mi dispero, mi strappo i capelli. Christe eleison, ultimo appiglio per non precipitare.
Per entrare in questa liturgia così accorata riascolto (meglio ancora se riguardo in dvd) il Christe della messa in si minore di Bach o della Missa Solemnis di Beethoven. Ci penseranno loro, i solisti e il coro, a prendermi per mano e ad accompagnarmi lungo quel sentiero stretto buio quasi pericoloso che porta al volto di Cristo.
È così che ormai sono quasi pronto al supremo slancio del terzo Kyrie, il più alto il più aereo il più leggero. Ce l'abbiamo fatta, papà, la risposta è negativa grazie a Dio. Anche al canto gregoriano non bastano più le righe, ne aggiunge di nuove in su in su fino ad arrivare al fa. Allora allungo il collo, mi stiro tutto, divento perfino ridicolo ma quella nota voglio proprio toccarla. Kyrie eleison: ora è un ringraziamento un arrivo un culmine felice che mai avrei creduto...
Niente confiteor per favore, niente mea culpa coi pugni sul petto. Aboliamola quella cantilena penitenziale. Kyrie eleison è già tutto.
No, non è tutto non è ancora tutto non sono ancora pronto per entrare a messa. Ho la faccia triste e gli occhi smorti e le mani flaccide. Mi lamento ogni giorno, parlo male di questo e di quello, mi riempio gli occhi dei delitti che colano dal telegiornale. Sono un uomo triste angoscioso e angosciato. Non sono un angelo per la buona novella.
Se non mi facessi trasportare dagli angeli del Gloria in excelsis Deo mai potrei entrare a messa. Resterei a piagnucolare e mai mi conquisterebbe lo squillo delle campane nella notte di Natale o nella Veglia di Pasqua: quando tutto si ferma e tutti si incantano e ridono perché il pannicello che avvolge Gesù Bambino non vuole sciogliersi e i campanelli e l'organo impazziscono per conto loro e mia madre si inginocchiava e mi tirava a terra fatti il segno della croce, diceva, è la gloria. Lo diceva al femminile ed era bello così. Se alzassi gli occhi, oggi vedrei gli angeli trasformati in una via lattea stesa lunga lunga sul lungotevere.
Il Gloria. L'inno più bello della chiesa cattolica, la vera preghiera del mattino, quando Ambrogio intonava e al giovane Agostino veniva da piangere.
Ora ne sono certo. La messa non vuole anime contrite ma cuori felici e tenterà in tutti i modi di comunicarmi la sua felicità perfino la sua allegria. A questo punto ho quasi nostalgia delle famose messe beat degli anni sessanta quando affollavamo sant'Alessio al Gianicolo in piedi o seduti per terra. Esplodeva il Concilio, spuntava la primavera, gli angeli volavano attorno a noi così entusiasti ingenui ferventi. La messa usciva dalle corsie dei banchi incolonnati e noi ci stringevamo l'uno all'altro come fossimo in corteo. Un rito religioso che si animava e si tingeva di mille colori, quanti ne portavamo dentro.
Ci siamo? Siamo arrivati nel cuore della messa? Mi dicono di no, fanno no con la testa. Vogliono che ora io sieda in silenzio e ascolti con attenzione. È il tempo del definitivo insegnamento e dell'ultima iniziazione al mistero. Fra poco apriranno il libro coi sette sigilli.
Ci torneremo ciao.


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Ultimo aggiornamento: 12 novembre 2021
 
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