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GIUGNO 2012

     

  LA CARITÀ CHE UCCIDE

 Vi segnalo questo libro di grande successo in tutto il mondo.
Dambisa Moyo Titolo: La Carità che uccide Editore: RIZZOLI

  

«Gli aiuti hanno contribuito a rendere più poveri i poveri e a rallentare la crescita. Ciononostante, gli aiuti internazionali restano il pezzo forte dell’attuale politica di sviluppo e una delle idee più radicate del nostro tempo. Il concetto secondo cui gli aiuti possono alleviare la povertà sistemica, e che ci siano riusciti, è un mito. Oggi in Africa milioni di persone sono più povere proprio a causa degli aiuti, la miseria e la povertà invece di cessare, sono aumentate. Gli aiuti sono stati e continuano ad essere un totale disastro politico, economico e umanitario per la maggior parte del mondo in via di sviluppo … La carità che uccide è la storia del fallimento della politica postbellica di sviluppo» (pp.22-23).

 

            La proposta di Dambisa Moyo Signori occidentali, vi prego di smetterla con gli aiuti: ci fanno male, creano corruzione e impediscono lo sviluppo Che cosa succederebbe se i paesi dell'Africa subsahariana ricevessero. una telefonata in cui si comunica che entro 5 anni i rubinetti degli aiuti verranno chiusi per sempre? Non una catastrofe. umanitaria, ma l'inizio della rinascita del continente più povero. È la controversa e rivoluzionaria tesi di una economista quarantenne, nata e cresciuta in Zambia, che nel 2009 il settimanale Time ha incluso fra le 100 persone più influenti dei pianeta.

            Dambisa Moyo sa di cosa parla. Figlia di un ex minatore sudafricano oggi a capo di un organismo anticomtzione e presidente della Indo-Zambia Bank, dopo il master a Harvard e un dottorato a Oxford ha lavorato a lungo come analista alla Goldman Sachs. Il suo primo libro, Dead Aid, pubblicato in Italia dalla Rizzoli con il titolo La carità che uccide, è fra i best-seller negli Stati Uniti, in Canada e in Gran Bretagna.

            «Dalla fine della Seconda guerra mondiale» dice a Panorama Moyo, dì passaggio in Italia su invito dell'istituto Bruno Leoni, «i paesi in via di sviluppo hanno ricevuto oltre 2 mila miliardi di dollari in aiuti, metà dei quali finiti in Africa. Non solo non sono serviti, sono diventati essi stessi la principale causa della tragedia africana». Difficile darle torto quando sostiene, dati alla mano, che il flusso degli aiuti ha avuto conseguenze disastrose: «Tra il 1970 e il 1998, quando il trasferimento di capitali verso i paesi del Terzo mondo ha raggiunto l'apice, il tasso di indigenza in Africa è salito dall'11 al 66 per cento e nei paesi più assistiti la crescita economica ha subito una contrazione annua dello 0,2 per cento. Oggi 600 milioni di africani, metà della popolazione del continente, vivono sotto la linea della povertà».

            Moyo sostiene che gli aiuti (15 per cento del pil dell'Africa subsahariana) innescano uno sciagurato circolo vizioso: alimentano la corruzione, la deptocrazia e le guerre civili, puntellano i regimi dispotici, scoraggiano gli investimenti, inibiscono la classe imprenditoriale autoctona, incrementano l'inflazione e creano dipendenza e povertà, rendendo indispensabili ulteriori aiuti. «Ogni anno l'Africa brucia 20 miliardi di dollari per rimborsare il debito estero e oltre 150 miliardi sono inghiottiti dalla dilagante corruzione. La realtà è che nessun paese al mondo è mai riuscito a ridurre i livelli di povertà e a sostenere la crescita economica grazie agli aiuti».

            II piano Marshall in Europa e la rivoluzione verde in India, riconosce Moyo, hanno funzionato, ma solo perché si trattava di programmi a breve termine, gestiti in modo efficiente e con obiettivi precisi. Non è il caso dell'Africa, dove «il fallimento della politica di sviluppo è sotto gli occhi di tutti» e dove prevale la logica perversa della carità appaltata alle stelle di Hollywood e alle rockstar.

            Le critiche al vetriolo di Moyo non sono dirette agli interventi umanitari d'emergenza o alle ong impegnate in progetti specifici di riconosciuta utilità, che rappresentano una frazione irrisoria dei miliardi di dollari trasferiti direttamente ai governi dei paesi poveri con accordi bilaterali o attraverso istituti come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. È questo «aiuto sistemico», in forma di prestiti a tassi agevolati e di sovvenzioni a fondo perduto, a perpetuare la dipendenza e a impedire la crescita economica.

            Moyo denuncia i casi emblematici degli agricoltori africani rovinati dalle eccedenze alimentari americane ed europee che inondano i mercati locali. O quello di un imprenditore costretto a chiudere la sua fabbrica dì zanzariere perché alcune organizzazioni internazionali avevano deciso di distribuirle gratis. «Non soltanto fra il 1981 e il 2002 il numero degli africani indigenti è raddoppiato» sottolinea «è crollato anche il tasso di alfabetizzazione degli adulti. E a nulla servono gli appelli alla trasparenza, al rigore fiscale e all'adozione di regole democratiche Piuttosto, si legge nel suo libro, «ciò di cui hanno bisogno i paesi ai gradini più bassi dello sviluppo economico non è una democrazia multipartitica, ma un dittatore benevolo e risoluto che introduca le riforme indispensabili a mettere in moto l'economia».

            II punto debole è nelle soluzioni proposte, tutte affidate alla panacea del libero mercato e dell'iniziativa privata. Moyo si pone agli antipodi del suo vecchio professore di Harvard e consulente del l'Onu Jeffrey Sachs, che per eliminare la povertà invoca un colossale piano di aiuti: 195 miliardi di dollari ogni anno fino al 2015. «È pura follia» afferma. «In Etiopia, dove gli aiuti formano il 90 per cento del bilancio pubblico, solo il 2 per cento della popolazione ha accesso alla telefonia mobile; Il Botswana, che ha abbracciato l'economia di mercato, ha ritmi di crescita asiatici. L'Africa deve imparare dalla Cina, che si è aperta al commercio, agli investimenti, alle esportazioni. E che con 4 mila miliardi di dollari di riserve valutarie, e un'inesauribile fame di materie prime, è oggi il partner ideale dell'Africa: hanno realizzato più infrastrutture i cinesi in 5 anni che gli americani in mezzo secolo».

            In pratica, Moyo propone ai paesi africani quattro fonti di finanziamento alternative agli aiuti: l'emissione di obbligazioni sul mercato internazionale dei capitali; l'incentivazione degli investimenti stranieri su larga scala nelle infrastrutture; una capillare strategia di microfinanziamenti; la liberalizzazione del mercato dei prodotti agricoli.

            Un punto, quest’ultimo, che dovrebbe comportare un poco realistico abbattimento delle barriere doganali e dei sussidi a favore degli agricoltori da parte di Usa, Ue e Giappone. È anche improbabile che imprenditori privati o ipotetici governi africani «virtuosi» decidano di impegnare le enormi somme indispensabili per combattere malattie come l'aids, la malaria e la tubercolosi, o per affrontare le sfide del degrado idrico, climatico e ambientale.

            Però Dambisa Moyo, ottimista a oltranza, non ha dubbi. Non la scoraggia neppure la recessione globale. «La crisi» conclude «è un'opportunità per l'Africa: i donatori occidentali devono tagliare i fondi. L'Italia lo ha già fatto. Così, forse, gli africani capiranno che devono cominciare a camminare con le proprie gambe».

Da Panorama, 27 maggio 2010

 

 

                 

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