LECTIO DIVINA “IL CANTICO DEI CANTICI”
A cura di Belella, Buldini, De Cicco, Senesi
Il titolo del libro è una forma di superlativo ebraico, come a dire: “Il Cantico sublime”. Di tratta di un testo per più ragioni singolare nella Bibbia. E’ un poema lirico, o forse una raccolta di poemi, che nel suo senso ovvio canta l’amore di due giovani, a volte con un’arditezza di linguaggio che sconcerta chi non conosce la mentalità e i modi di esprimersi degli Orientali. La questione più importante è l’interpretazione di fondo del Cantico come libro sacro. C’è chi pensa che molto opportunamente il libro di Dio celebra l’amore umano che, se è spesso degradato e profanato, ha una sua sacralità, che risale all’opera della creazione divina; altri ritiene che, sebbene il materiale originario del poema riguardi l’amore umano, il redattore ispirato lo ha inteso come simbolo dell’amore di Dio per il suo popolo. La tradizione ebraica e cristiana sostiene l’interpretazione allegorica: il Cantico tratta direttamente, in senso letterario traslato, una realtà superiore. I profeti presentano l’alleanza di Dio con Israele come un matrimonio d’amore (cfr. Os c. 2; Ger 3, 1-3; Ez c. 23, ecc.) che il Cantico traduce in ardenti espressioni. Lo sposo del poema è dunque Dio e la sposa Israele; e poiché l’amore di Dio per il suo popolo eletto si prolunga nell’amore di Cristo per la sua Chiesa, lo sposo è Cristo e la sposa è la Chiesa. Per altri, la sposa è la Vergine Maria o l’anima cristiana. Il bellissimo poema è attribuito a Salomone (sec. X a.C.); sebbene ciò non sia del tutto impossibile, si pensa che l’attribuzione sia dovuta a un artificio letterario (cfr. introd. a Qo e Sap) e che l’autore sia piuttosto un ignoto poeta, che scriveva tra il sec. VI e IV a.C., forse utilizzando materiale molto antico, che potrebbe risalire ai tempi di Salomone.
In realtà, in quest’opera poetica in cui Dio parla il linguaggio degli innamorati, il punto di partenza è terrestre e umano, è l’amore di una coppia giovane e felice che incarna l’eterno sbocciare dell’amore tra ogni Adamo e ogni Eva, secondo il racconto del capitolo 2° della Genesi. Ma questo amore puro e concreto è la rappresentazione di ogni amore, rimanda di sua natura all’amore supremo tra Dio e la sua creatura. Perciò, come scriveva nel secolo III un grande maestro cristiano, Origene, “beato chi comprende e canta i cantici della Scrittura; ma ben più beato che comprende e canta il Cantico dei Cantici”.
Il cantico dei Cantici è la celebrazione dell’amore. Dio è AMORE. Per capire come Dio ama l’uomo, come ama ciascuno di noi con una tenerezza infinita, con un Amore Misericordioso, il Cantico dei cantici si ispira, prende ad esempio l’amore umano: “l’amore tra un uomo e una donna”, per renderlo più accessibile e comprensibile al nostro limite umano. L’amore umano nasce dall’amore di Dio per l’uomo.
“Amiamoci gli uni gli altri,
perché l’amore è da Dio:
chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio.
Chi non ama non ha conosciuto Dio,
perché Dio è amore”
(1Gv 4,7-8).
Amare implica aver conosciuto Dio, e se Dio è amore e se noi siamo innamorati di Dio allora saremo in grado di far trasparire in noi l’amore vero, l’amore di Dio. E quelle rare volte che riusciamo ad amare veramente l’altro non è certo per la nostra bravura, ma per grazia di Dio, per esserci lasciati docilmente plasmare dal suo amore.
Madre Speranza ci è stata di esempio: tutta la sua vita è stata innamorata del suo Signore, “el amado de me alma” tanto che non riusciva ad esprimere con le labbra le delizie di quell’amore perché è una melodia che viene compresa solo da chi la canta e da colui al quale viene cantata (El Pan 18 783-785, 1390-1391)
Attraverso il cantico ognuno di noi è portato a riflettere sull’Amore su quello che sta vivendo a livello personale e collettivo.
Alla luce delle riflessioni e degli approfondimenti personali abbiamo considerato che il nostro amore è imperfetto in quanto non abbiamo raggiunto la sublimazione dell’Amore cantato nel Cantico dei Cantici e tanto più non ci rendiamo conto di quanto sia misericordioso questo amore verso noi peccatori.
Il testo comprende 1250 parole distribuite in 117 versetti e 8 capitoli. La bellezza di questo poema ha influito la letteratura, la pittura e la musica non solo italiana ma anche straniera. Ci sono state addirittura traduzioni in dialetto sardo e napoletano. Tra i dipinti ricordiamo “Riposo nella fuga in Egitto” del Caravaggio che ritrae Giuseppe con in mano uno spartito riportante alcuni versi del Cantico dei Cantici e Chagall che raffigura i primi 5 carmi del Cantico. Tra i musicisti ricordiamo Hendel, Strawiskij ed altri.
Anche Roberto Benigni si è interessato a questo Poema, definendolo un gioiello, un momento meraviglioso della Bibbia, dove la castità si mette a ballare con la sensualità, la purezza con l’erotismo.
Il Cantico dei Cantici è attribuito a Salomone (sec. X a.C.) ma più probabilmente lo si può far risalire ad un periodo che va dal sec. VI al IV a.C., anche se l’autore, ignoto poeta, ha sicuramente utilizzato materiale molto più antico. Il “Cantico dei Cantici” nella versione siriaca è chiamato: “Sapienza della Sapienza di Salomone”, ma per la tradizione ebraica e cristiana lo si può intendere come “Il Cantico più sacro”.
Per l’interpretazione più comune ebraica il cantico va letto allegoricamente come l’Amore di Jahweh verso Israele; per l’interpretazione cristiana come l’Amore di Cristo verso la Chiesa, o verso l’anima cristiana.
Cap. 1 Il Cantico dei Cantici, è il massimo componimento lirico, che è di Salomone, che appartiene a Salomone, ( = colui che è in pace-shalom- con Dio, o che è stato restituito, shalam – da Dio) il Cantico appartiene cioè a chi pro-viene da Dio, a chi “viene in pro” da parte di Dio, ed è quindi “favorito da Dio”, Il Cantico dei Cantici è del “vezzeggiato” da Dio.
2 Il colloquio si svolge tra i due amanti, promessi sposi fin dall’inizio della storia umana: tra Daath, la Coscienza, l’Io Sono, il Verbo, il Sé, che rappresenta lo Sposo e Malkuth (MalKah), la creatura, la personalità, la natura umana, che rappresenta la Sposa. I due si sono già conosciuti, perché il Cantico è di e “per” chi è già Salomone; se non si è tali, il Cantico non ci appartiene e per “averlo” occorre prima ottenere tale “giusta qualifica”.
Baciami con i baci della tua bocca: la promessa Sposa implora i baci del sé; essa già li ha conosciuti e arde dal desiderio di ripetere l’esperienza inebriante dei baci e delle carezze del suo Promesso; queste elargiscono ebbrezze superiori a quelle del vino, che pure è bevanda simbolica, spirituale, di verità e di conoscenza, relativa alla veridas (vitalità) e nettare peculiare della terra, in cui sono celati i misteri relativi alla vita e alla morte (v. il vino della Messa che rappresenta il sangue di Cristo Risorto).
3 Respirare i profumi dell’Io Sono significa conoscerne la soavità e aspirare l’Aroma del Nome, significa conoscere La Parola, il Verbo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv. 1,1), per questo ti amano le fanciulle: (le fanciulle rappresentano le Sephiroth dell’Albero) esse sono tutte in attesa di conoscere lo Sposo per appartenerGli (v. commento a Mt. 25, 1-13 Parabola delle vergini savie e delle vergini stolte).
4 Attirami dietro di Te, corriamo: L’Innamorata chiede di poter percorrere il sentiero centrale dell’Albero, la Via della Freccia di Fuoco, per giungere subito al momento delle Nozze Mistiche, infatti dice: fammi entrare o Re nelle tue stanze: ricordiamo “Il Castello Interiore” di S. Teresa d’Avila… ma qui il tempo è ancora prematuro; esultare, gioire, celebrare l’amore sono azioni viste nel futuro, come mete ancora da raggiungere. Come a ragione ti si ama: tuttavia la promessa Sposa è consapevole della ragione, della giusta motivazione, del grande e infinito Amore che sente ardere in sé.
5-6 La Promessa si rivolge ora alle sue “amiche” (=figlie di Gerusalemme): esse sono le stesse fanciulle del v. 3, le altre Sephiroth dell’Albero, figlie di Daath (Gerusalemme celeste) ma anche figlie di Malkuth (Gerusalemme terrestre) e poiché Gerusalemme significa città della Pace, abbiamo ancora un riferimento all’autore e unico fruitore del Cantico stesso: Salomone.
Io son bruna, ma bella: l’autodescrizione rivela la profonda conoscenza di sé che deve avere la personalità aspirante all’Unione col Divino, essere bruni, vuol dire essere stati abbronzati dal Sole, perciò in grado di sopportare le intemperie, vale a dire le prove della vita: la Bellezza (la conoscenza di Tiphereth) è il risultato di queste esperienze correttamente vissute. La brunitura , simile a quella delle tende di Kedar e delle cortine di Salomone riporta al colore viola scuro o porpora, colore relativo alla “purificazione” ottenuta anche con la desertificazione: i figli di mia madre si sono adirati con me, mi hanno posto a guardia delle vigne, essa è stata lasciata in solitudine nella campagna, fatta custode delle fonti stesse del “vino” (dell’energia), le vigne, che ha saputo custodire, ma la mia, la mia vigna non ho custodito: la promessa Sposa ha custodito l’energia vitale dei “fratelli” (degli altri centri energetici) altro termine per indicare le Sephiroth dell’Albero, ma lei stessa, innamorandosi del suo Amato, ha perduto ogni controllo su di sé, si è perduta in Lui (nell’esperienza dell’estasi).
7-8 L’Amata è alla ricerca dell’Amato, vorrebbe conoscere “Il Luogo” ove Egli va a pascolare il gregge: qui il Re si è trasformato in Pastore: Daath, la Coscienza, il Sé rappresenta nel linguaggio simbolico cabalistico il Re della città, sia il Sacerdote-Pastore delle pecore, intendendo per città e per pecore sempre le Sephiroth dell’Albero, che Egli governa da assoluto Sovrano, allorché l’Albero è diventato Albero di Vita, come per chi è Salomone. Essa, la personalità teme di smarrirsi e di non saper riconoscere il “suo” Pastore. La Replica alla sua domanda le arriva come risposta impersonale: mena a pascolare le tue caprette presso le dimore di Pastori: conduci i tuoi sensi oltre il pensiero: nell’intuizione, nella meditazione, nel Silenzio.
9 Il Sé paragona la sua Amata alla cavalla del cocchio del faraone in un’immagine molto simbolica, che ci ricorda l’archetipo del “Carro”, in cui l’Auriga (il faraone) è lo stesso Sé, il carro rappresenta il fisico e i cavalli (la cavalla) la psiche, l’anima, senza cavalli il Carro non potrebbe correre e l’Auriga rimarrebbe “fermo”…
10-11 L’Amato ama la sua creatura di cui loda la bellezza, che Egli si propone di aumentare con ornamenti in oro e argento. L’oro e l’argento simboleggiano i “metalli” della realizzazione alchemica, del compimento dell’Opera, della celebrazione delle Nozze Mistiche, l’oro è relativo allo spirituale e al fuoco-aria, l’argento è relativo al vitale e all’acqua-terra, l’unione dei due opposti crea la perfezione, rappresentata graficamente dal Sigillo di Salomone,
12-17 E’ qui descritta l’Unione dei due Amanti: non siamo alle Nozze mistiche, ma solo ad un incontro amoroso in cui si produce un amplesso. Le immagini sono ricche di Eros, le descrizione cariche di passione: il Re è nel suo recinto, il mio nardo effonde il suo profumo: il fuoco-aria che penetra nell’acqua-terra produce tre tipi di profumo quello del nardo, quello della mirra, quello di Kofer; il nardo è un profumo di radice, la mirra è una resina di tronco, il Kofer un fiore a pannocchia, bianco. L’incontro tra i due Amanti rende profumato tutto l’Albero, i tre mondi di Assiah (la radice), Yetzirah (il tronco), Briah (il fiore), vengono trasmutati nella loro “essenza” (=profumo) e la bellezza dell’Albero si riflette negli occhi dell’Amata, che divengono colombe (la colomba è il simbolo della discesa dello Spirito sulla terra) ed Essa riconosce nell’Amato il suo “Diletto”, letteralmente, il suo Bambino adorato (il Figlio) nella cornice della “Casa” dell’Amore. Il letto florido (fiorito, ricco, ornato), le travi di cedro, il soffitto di cipressi, la Casa edificata con gli stessi materiali preziosi usati per la costruzione del Tempio di Salomone.
GIOVANNI PAOLO II all’UDIENZA GENERALE di Mercoledì, 6 giugno 1984 così commenta il Cantico dei Cantici.
…..1. Anche oggi riflettiamo sul Cantico dei cantici al fine di comprendere maggiormente il segno sacramentale del matrimonio.
La verità dell’amore, proclamata dal Cantico dei cantici, non può essere separata dal “linguaggio del corpo”. La verità dell’amore fa sì che lo stesso “linguaggio del corpo” venga riletto nella verità. Questa è anche la verità del progressivo avvicinarsi degli sposi che cresce attraverso l’amore: e la vicinanza significa pure l’iniziazione al mistero della persona, senza però implicarne la violazione (cf. Ct 1, 13-14.16).
La verità della crescente vicinanza degli sposi attraverso l’amore si sviluppa nella dimensione soggettiva “del cuore”, dell’affetto e del sentimento, la quale permette di scoprire in sé l’altro come dono e, in un certo senso, di “gustarlo” in sé (cf. Ct 2, 3-6).
Attraverso questa vicinanza lo sposo vive più pienamente l’esperienza di quel dono che da parte dell’“io” femminile si unisce con l’espressione e il significato sponsali del corpo. Le parole dell’uomo (cf. Ct 7, 1-8) non contengono solo una descrizione poetica dell’amata, della sua bellezza femminea, su cui si soffermano i sensi, ma parlano del dono e del donarsi della persona.
La sposa sa che verso di lei è la “brama” dello sposo e gli va incontro con la prontezza del dono di sé (cf. Ct 7, 9-13) perché l’amore che li unisce è di natura spirituale e sensuale insieme. Ed è anche in base a quest’amore che si attua la rilettura nella verità del significato del corpo, poiché l’uomo e la donna debbono in comune costituire quel segno del reciproco dono di sé, che pone il sigillo su tutta la loro vita.
2. Nel Cantico dei cantici il “linguaggio del corpo” è inserito nel singolare processo della reciproca attrattiva dell’uomo e della donna, che viene espresso nei frequenti ritornelli che parlano della ricerca piena di nostalgia, di sollecitudine affettuosa (cf. Ct 2, 7) e del vicendevole ritrovarsi degli sposi (cf. Ct 5, 2). Ciò porta loro gioia e quiete e sembra indurli a una ricerca continua. Si ha l’impressione che, incontrandosi, raggiungendosi, sperimentando la propria vicinanza, continuino incessantemente a tendere a qualcosa: cedano alla chiamata di qualcosa che sovrasta il contenuto del momento e oltrepassa i limiti dell’eros, riletti nelle parole del mutuo “linguaggio del corpo” (cf. Ct 1, 7-8; 2, 17). Questa ricerca ha la sua dimensione interiore: “il cuore veglia” perfino nel sonno. Questa aspirazione nata dall’amore sulla base del “linguaggio del corpo” è una ricerca del bello integrale, della purezza libera da ogni macchia: è una ricerca di perfezione che contiene, direi, la sintesi della bellezza umana, bellezza dell’anima e del corpo.
Nel Cantico dei Cantici l’eros umano svela il volto dell’amore sempre alla ricerca e quasi mai appagato. L’eco di questa inquietudine percorre le strofe del poemetto: “Ho aperto allora al mio diletto, / il mio diletto già se n’era andato, era scomparso. / Io venni meno, ma non l’ho trovato, / l’ho chiamato ma non m’ha risposto” (Ct 5, 6). “Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, / se trovate il mio diletto / che cosa gli racconterete? / Che sono malata d’amore” (Ct 5, 9).
3. Dunque alcune strofe del Cantico dei cantici presentano l’eros come la forma dell’amore umano, in cui operano le energie del desiderio. Ed è in esse che si radica la coscienza ossia la certezza soggettiva del reciproco, fedele ed esclusivo appartenersi. Al tempo stesso, però, molte altre strofe del poema ci impongono di riflettere sulla causa della ricerca e dell’inquietudine che accompagnano la coscienza dell’essere l’uno dell’altra. Questa inquietudine fa parte anch’essa della natura dell’eros? Se così fosse, tale inquietudine indicherebbe pure la necessità dell’autosuperamento. La verità dell’amore si esprime nella coscienza del reciproco appartenersi, frutto dell’aspirazione e della ricerca vicendevole e della necessità dell’aspirazione e della ricerca, esito del reciproco appartenersi.
In tale necessità interiore, in tale dinamica di amore, si svela indirettamente la quasi impossibilità di appropriarsi e impossessarsi della persona da parte dell’altra. La persona è qualcuno che sovrasta tutte le misure di appropriazione e padroneggiamento, di possesso e di appagamento, che emergono dallo stesso “linguaggio del corpo”. Se lo sposo e la sposa rileggono questo “linguaggio” nella piena verità della persona e dell’amore, giungono alla sempre più profonda convinzione che l’ampiezza della loro appartenenza costituisce quel dono reciproco in cui l’amore si rivela “forte come la morte”, cioè risale fino agli ultimi limiti del “linguaggio del corpo” per superarli. La verità dell’amore interiore e la verità del dono reciproco chiamano, in un certo senso, continuamente lo sposo e la sposa – attraverso i mezzi di espressione del reciproco appartenersi e perfino staccandosi da quei mezzi – a pervenire a ciò che costituisce il nucleo del dono da persona a persona.
4. Seguendo i sentieri delle parole tracciate dalle strofe del Cantico dei cantici sembra che ci avviciniamo dunque alla dimensione in cui l’“eros” cerca di integrarsi, mediante ancora un’altra verità dell’amore. Secoli dopo – alla luce della morte e risurrezione di Cristo – questa verità la proclamerà Paolo di Tarso, con le parole della lettera ai Corinzi: “La carità è paziente, è benigna la carità, non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine” (1 Cor 13, 4-8).
La verità sull’amore, espressa nelle strofe del Cantico dei cantici viene confermata alla luce di queste parole paoline? Nel Cantico leggiamo, ad esempio sull’amore, che la sua “gelosia” è “tenace come gli inferi” (Ct 8, 6), e nella lettera paolina leggiamo che “non è invidiosa la carità”. In quale rapporto sono entrambe le espressioni sull’amore? In quale rapporto sta l’amore che “è forte come la morte”, secondo il Cantico dei cantici, con l’amore “che non avrà mai fine”, secondo la lettera paolina? Non moltiplichiamo queste domande, non apriamo l’analisi comparativa. Sembra tuttavia che l’amore si apra, davanti a noi, in due prospettive: come se ciò, in cui l’“eros” umano chiude il proprio orizzonte, si aprisse ancora, attraverso le parole paoline, a un altro orizzonte di amore che parla un altro linguaggio; l’amore che sembra emergere da un’altra dimensione della persona e chiama, invita a un’altra comunione. Questo amore è stato chiamato col nome di “agape” e l’agape porta a compimento, purificandolo, l’eros.
Abbiamo così concluso queste brevi meditazioni sul Cantico dei cantici, intese ad approfondire ulteriormente il tema del “linguaggio del corpo”. In questo ambito, il Cantico dei cantici ha un significato del tutto singolare.
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Christifideles laici 2 Bruna
Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo
Esortazione apostolica postsinodale di Giovanni Paolo II
Proseguiamo la lettura dell’Esortazione apostolica facendo prima un piccolissimo riepilogo della prima parte.
- TUTTI i fedeli laici sono personalmente chiamati dal Signore, dal quale ricevono una missione per la Chiesa e per il mondo
- In un mondo pieno di contraddizioni, problemi, soprusi, conflitti
- I fedeli laici hanno un posto originale e insostituibile: per mezzo loro la Chiesa di Cristo è resa presente nei più svariati settori del mondo, come segno e fonte di speranza e di amore.
E’ interessante e arricchente la riscoperta che l’esortazione ci propone in questa parte del nostro Battesimo: siamo tutti chiamati a riscoprirlo e a viverlo.
PARTE I pag. 12-25
L'immagine della vigna viene usata dalla Bibbia in molti modi e con diversi significati: in particolare, essa serve ad esprimere il mistero del Popolo di Dio. In questa prospettiva più interiore i fedeli laici non sono semplicemente gli operai che lavorano nella vigna, ma sono parte della vigna stessa: «Io sono la vite, voi i tralci».
Già nell'Antico Testamento i profeti per indicare il popolo eletto ricorrono all'immagine della vigna. Israele è la vigna di Dio. Gesù riprende il simbolo della vigna e se ne serve per rivelare alcuni aspetti del Regno di Dio. L'evangelista Giovanni ci invita a scendere in profondità e ci introduce a scoprire il mistero della vigna: essa è il simbolo e la figura non solo del Popolo di Dio, ma di Gesù stesso. Lui è il ceppo e noi, i discepoli, siamo i tralci; Lui è la «vera vite», nella quale sono vitalmente inseriti i tralci. Il Concilio dà questa definizione dei laici ed asserisce la piena appartenenza dei fedeli laici alla Chiesa e al suo mistero e il carattere peculiare della loro vocazione, che ha in modo speciale lo scopo di «cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio»(14). «Col nome di laici - così la Costituzione Lumen gentium li descrive - si intendono qui tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso sancito dalla Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col Battesimo e costituiti Popolo di Dio e, a loro modo, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano».
Già Pio XII diceva: «I fedeli, debbono avere una sempre più chiara consapevolezza, non soltanto di appartenere alla Chiesa, ma di essere la Chiesa, vale a dire la comunità dei fedeli sulla terra sotto la condotta del Capo comune, il Papa, e dei Vescovi in comunione con lui. Essi sono la Chiesa(...)»(16).
In Gesù Cristo, morto e risorto, il battezzato diventa una «creatura nuova» (Gal 6, 15; 2 Cor 5, 17), una creatura purificata dal peccato e vivificata dalla grazia.
In tal modo, solo cogliendo la misteriosa ricchezza che Dio dona al cristiano nel santo Battesimo è possibile delineare la «figura» del fedele laico.
Il battesimo e la novità cristiana
10. Non è esagerato dire che l'intera esistenza del fedele laico ha lo scopo di portarlo a conoscere la radicale novità cristiana che deriva dal Battesimo, sacramento della fede, perché possa viverne gli impegni secondo la vocazione ricevuta da Dio. Per descrivere la «figura» del fedele laico prendiamo ora in esplicita e più diretta considerazione, tra gli altri, questi tre fondamentali aspetti: il Battesimo ci rigenera alla vita dei figli di Dio, ci unisce a Gesù Cristo e al suo Corpo che è la Chiesa, ci unge nello Spirito Santo costituendoci templi spirituali.
Figli nel Figlio
11. Ricordiamo le parole di Gesù a Nicodemo: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3, 5). Il santo Battesimo è, dunque, una nuova nascita, è una rigenerazione.
Con il santo Battesimo diventiamo figli di Dio nell'Unigenito suo Figlio, Cristo Gesù. Uscendo dalle acque del sacro fonte, ogni cristiano riascolta la voce che un giorno si è udita sulle rive del fiume Giordano: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Lc 3, 22), e capisce che è stato associato al Figlio prediletto, diventando figlio di adozione (cf. Gal 4, 4-7) e fratello di Cristo. E' lo Spirito Santo che costituisce i battezzati in figli di Dio e nello stesso tempo membra del corpo di Cristo.
Un solo corpo in Cristo
12. Rigenerati come «figli nel Figlio», i battezzati sono inscindibilmente «membri di Cristo e membri del corpo della Chiesa», come insegna il Concilio di Firenze (17).
Il Battesimo significa e produce un'incorporazione mistica ma reale al corpo crocifisso e glorioso di Gesù. Mediante il sacramento Gesù unisce il battezzato alla sua morte per unirlo alla sua risurrezione (cf. Rom 6, 3-5), lo spoglia dell'«uomo vecchio» e lo riveste dell'«uomo nuovo», ossia di Se stesso.
Templi vivi e santi dello Spirito
13. Con un'altra immagine, quella di un edificio, l'apostolo Pietro definisce i battezzati come «pietre vive» fondate su Cristo, la «pietra angolare», e destinate alla «costruzione di un edificio spirituale» (1 Pt 2, 5 ss). L'immagine ci introduce a un altro aspetto della novità battesimale, così presentato dal Concilio Vaticano II: «Per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati a formare una dimora spirituale»(18).
Lo Spirito Santo «unge» il battezzato, vi imprime il suo indelebile sigillo (cf. 2 Cor 1, 21-22), e lo costituisce tempio spirituale, ossia lo riempie della santa presenza di Dio grazie all'unione e alla conformazione a Gesù Cristo.
Con questa spirituale «unzione», il cristiano può, a suo modo, ripetere le parole di Gesù: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19; cf. Is 61, 1-2).
Partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Gesù Cristo
Un nuovo aspetto della grazia e della dignità battesimale è questa: i fedeli laici partecipano, per la loro parte, al triplice ufficio _ sacerdotale, profetico e regale _ di Gesù Cristo..
I fedeli laici sono partecipi dell'ufficio sacerdotale, per il quale Gesù ha offerto Se stesso sulla Croce e continuamente si offre nella celebrazione eucaristica a gloria del Padre per la salvezza dell'umanità. Incorporati a Gesù Cristo, i battezzati sono uniti a Lui e al suo sacrificio nell'offerta di se stessi e di tutte le loro attività (cf. Rom 12, 1-2). Parlando dei fedeli laici il Concilio dice: «Tutte le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza, diventano spirituali sacrifici graditi a Dio per Gesù Cristo (cf. 1 Pt 2, 5), i quali nella celebrazione dell'Eucaristia sono piissimamente offerti al Padre insieme all'oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo stesso»(23).
La partecipazione all'ufficio profeticodi Cristo, abilita e impegna i fedeli laici ad accogliere nella fede il Vangelo e ad annunciarlo con la parola e con le opere non esitando a denunciare coraggiosamente il male. Sono altresì chiamati a far risplendere la novità e la forza del Vangelo nella loro vita quotidiana, familiare e sociale, come pure ad esprimere, con pazienza e coraggio, nelle contraddizioni dell'epoca presente la loro speranza nella gloria «anche attraverso le strutture della vita secolare»(26).
Per la loro appartenenza a Cristo Signore e Re dell'universo i fedeli laici partecipano al suo ufficio regale e sono da Lui chiamati al servizio del Regno di Dio e alla sua diffusione nella storia. Essi vivono la regalità cristiana, anzitutto mediante il combattimento spirituale per vincere in se stessi il regno del peccato (cf. Rom 6, 12), e poi mediante il dono di sé per servire, nella carità e nella giustizia, Gesù stesso presente in tutti i suoi fratelli, soprattutto nei più piccoli (cf. Mt 25, 40).
I fedeli laici e l'indole secolare
15. La novità cristiana è il fondamento e il titolo dell'eguaglianza di tutti i battezzati in Cristo, di tutti i membri del Popolo di Dio: «comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione, una sola salvezza, una sola speranza e indivisa carità»(28). In forza della comune dignità battesimale il fedele laico è corresponsabile, insieme con i ministri ordinati e con i religiosi e le religiose, della missione della Chiesa
Certamente tutti i membri della Chiesa sono partecipi della sua dimensione secolare; ma lo sono in forme diverse. In particolare la partecipazione dei fedeli laici ha una sua modalità di attuazione e di funzione che, secondo il Concilio, è loro «propria e peculiare»: tale modalità viene designata con l'espressione «indole secolare»(32).
Essi sono persone che vivono la vita normale nel mondo, studiano, lavorano, stabiliscono rapporti amicali, sociali, professionali, culturali, ecc. Il Concilio considera la loro condizione non semplicemente come un dato esteriore e ambientale, bensì come una realtà destinata a trovare in Gesù Cristo la pienezza del suo significato(35). Il «mondo» diventa così l'ambito e il mezzo della vocazione cristiana dei fedeli laici, perché esso stesso è destinato a glorificare Dio Padre in Cristo. Non sono chiamati ad abbandonare la posizione ch'essi hanno nel mondo. Il Battesimo non li toglie affatto dal mondo. I fedeli laici, infatti, «sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l'esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a rendere visibile Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro vita e con il fulgore della fede, della speranza e della carità»
Chiamati alla santità
La prima e fondamentale vocazione che il Padre in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito rivolge a ciascuno di loro è la vocazione alla santità, ossia alla perfezione della carità. Il santo è la testimonianza più splendida della dignità conferita al discepolo di Cristo.
Tutti nella Chiesa, proprio perché ne sono membri, ricevono e quindi condividono la comune vocazione alla santità. A pieno titolo, senz'alcuna differenza dagli altri membri della Chiesa, ad essa sono chiamati i fedeli laici: «Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità»(43); «Tutti i fedeli sono invitati e tenuti a tendere alla santità e alla perfezione del proprio stato»(44).
La vocazione alla santità affonda le sue radici nel Battesimo e viene riproposta dagli altri Sacramenti, principalmente dall'Eucaristia: rivestiti di Gesù Cristo e abbeverati dal suo Spirito, i cristiani sono «santi» e sono, perciò, abilitati e impegnati a manifestare la santità del loro essere nella santità di tutto il loro operare. L'apostolo Paolo non si stanca di ammonire tutti i cristiani perché vivano «come si addice a santi» (Ef 5, 3).
La vita secondo lo Spirito, il cui frutto è la santificazione (cf. Rom 6, 22; Gal 5, 22),suscita ed esige da tutti e da ciascun battezzato la sequela e l'imitazione di Gesù Cristo, nell'accoglienza delle sue Beatitudini, nell'ascolto e nella meditazione della Parola di Dio, nella consapevole e attiva partecipazione alla vita liturgica e sacramentale della Chiesa, nella preghiera individuale, familiare e comunitaria, nella fame e nella sete di giustizia, nella pratica del comandamento dell'amore in tutte le circostanze della vita e nel servizio ai fratelli, specialmente se piccoli, poveri e sofferenti.
Santificarsi nel mondo
17. La vocazione dei fedeli laici alla santità comporta che la vita secondo lo Spirito si esprima in modo peculiare nel loro inserimento nelle realtà temporali e nella loro partecipazione alle attività terrene. Il Concilio afferma categoricamente: «Né la cura della famiglia né gli altri impegni secolari devono essere estranei all'orientamento spirituale della vita»(45). A loro volta i Padri sinodali hanno detto: «L'unità della vita dei fedeli laici è di grandissima importanza: essi, infatti, debbono santificarsi nell'ordinaria vita professionale e sociale. Perché possano rispondere alla loro vocazione, dunque, i fedeli laici debbono guardare alle attività della vita quotidiana come occasione di unione con Dio e di compimento della sua volontà, e anche di servizio agli altri uomini, portandoli alla comunione con Dio in Cristo»(46).
La vocazione alla santità dev'essere percepita e vissuta dai fedeli laici, prima che come obbligo esigente e irrinunciabile, come segno luminoso dell'infinito amore del Padre che li ha rigenerati alla sua vita di santità. Tale vocazione, allora, deve dirsi una componente essenziale e inseparabile della nuova vita battesimale, e pertanto un elemento costitutivo della loro dignità. Nello stesso tempo la vocazione alla santità è intimamente connessa con la missione e con la responsabilità affidate ai fedeli laici nella Chiesa e nel mondo. Infatti, già la stessa santità vissuta, che deriva dalla partecipazione alla vita di santità della Chiesa, rappresenta il primo e fondamentale contributo all'edificazione della Chiesa stessa, quale «Comunione dei Santi». Agli occhi illuminati dalla fede si spalanca uno scenario meraviglioso: quello di tantissimi fedeli laici, uomini e donne, che proprio nella vita e nelle attività d'ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, sconosciuti ai grandi della terra ma guardati con amore dal Padre, sono gli operai instancabili che lavorano nella vigna del Signore, sono gli artefici umili e grandi _ certo per la potenza della grazia di Dio _ della crescita del Regno di Dio nella storia.
La santità, poi, deve dirsi un fondamentale presupposto e una condizione del tutto insostituibile per il compiersi della missione di salvezza nella Chiesa. E' la santità della Chiesa la sorgente segreta e la misura infallibile della sua operosità apostolica e del suo slancio missionario. Solo nella misura in cui la Chiesa, Sposa di Cristo, si lascia amare da Lui e Lo riama, essa diventa Madre feconda nello Spirito.
Riprendiamo di nuovo l'immagine biblica: lo sbocciare e l'espandersi dei tralci dipendono dal loro inserimento nella vite. «Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 4-5).
E' naturale qui ricordare la solenne proclamazione di fedeli laici, uomini e donne, come beati e santi, avvenuta durante il mese del Sinodo. L'intero Popolo di Dio, e i fedeli laici in particolare, possono trovare ora nuovi modelli di santità e nuove testimonianze di virtù eroiche vissute nelle condizioni comuni e ordinarie dell'esistenza umana. Come hanno detto i Padri sinodali: «Le Chiese locali e soprattutto le cosiddette Chiese più giovani debbono riconoscere attentamente fra i propri membri quegli uomini e quelle donne che hanno offerto in tali condizioni (le condizioni quotidiane del mondo e lo stato coniugale) la testimonianza della santità e che possono essere di esempio agli altri affinché, se si dia il caso, li propongano per la beatificazione e la canonizzazione»(47).
Al termine di queste riflessioni, destinate a definire la condizione ecclesiale del fedele laico, ritorna alla mente il celebre monito di San Leone Magno: «Agnosce, o Christiane, dignitatem tuam»(48). E' lo stesso monito di San Massimo, vescovo di Torino, rivolto a quanti avevano ricevuto l'unzione del santo Battesimo: «Considerate l'onore che vi è fatto in questo mistero!»(49). Tutti i battezzati sono invitati a riascoltare le parole di Sant'Agostino: «Rallegriamoci e ringraziamo: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo (...). Stupite e gioite: Cristo siamo diventati!»(50).
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