UNO SGUARDO D’AMORE (Franca Leo Belella)
Dobbiamo ricordare, dice la Beata Madre Speranza, “che quanti soffrono attendono il nostro conforto, anzi aspettano che prendiamo su di noi le loro sofferenze; la stessa cosa richiedono la carità e l’amore a Gesù. Quando incontrate una persona, sotto il peso del dolore fisico o morale non tentate di offrirle un aiuto o incoraggiamento senza prima averla guardata con amore” (CP1941,p.124).
Verrebbe facile dire “Che cosa costa in fin dei conti uno sguardo, un sorriso, un abbraccio, una parola buona” ma è quella preposizione “con” seguita dal sostantivo “amore” che rende necessario riscoprire e prendere coscienza dell’autenticità del nostro gesto.
“E’ importante allora, dice ancora Madre Speranza, capirli e immedesimarci con empatia nelle loro situazioni. Dal momento che si vedranno capiti si sentiranno confortati e le nostre parole scenderanno come balsamo salutare sulle loro ferite”
Ancora la preposizione “con” seguita questa volta dal sostantivo “empatia” che richiede un coinvolgimento interiore profondo, un sentire dentro, una capacità di comprendere in modo immediato i pensieri e gli stati d’animo di quelli che piangono escludendo ogni giudizio morale.
Gli occhi sono lo specchio dell’anima afferma un proverbio popolare perché lo sguardo dell’uomo è portatore d’anima, se in essa abita Dio, lo sguardo dell’uomo diventa dono di Dio agli uomini.
“La lucerna del corpo è l’occhio. Dunque se il tuo occhio è puro, tutto il corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è torbido, tutto il tuo corpo sarà nel buio” (Matt. 6, 22)
Custodendo lo Spirito in noi, riusciremo a toccare il dolore del fratello portandogli il conforto, la consolazione dell’Uomo dei dolori, che ben conosce il patire (Is. 53,3) ma se rimaniamo prigionieri del nostro Io, cedendo alla tentazione di giudicare l’altro per le sue miserie addebitandogli le cause della sua afflizione, il nostro atto d’aiuto sarà imperfetto.
Allora preghiamo e facciamo vuoto in noi stessi.
“Signore, liberami dal mio cuore, tutto gonfio d’amore, ma, mentre credo di amare pazzamente, intravvedo rabbioso che ancora amo me stesso nell’altro.
Signore, liberami dal mio spirito pieno di se stesso, delle sue idee, dei suoi giudizi; non sa dialogare, perché non colpisce altra parola fuorché la sua.” (M. Quoist)
“Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro celeste” (Luca 6, 27-36) solo così adempiremo al precetto evangelico: “Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi” (Giovanni 15, 9-17) e riusciremo a caricarci della croce materiale o spirituale dei bisognosi mettendoci a loro servizio.
“Portate i pesi gli uni degli altri” (Galati 6:1-2) e “se alcuno, disponendo di ricchezze del mondo vede il suo fratello nella necessità e gli chiude il suo cuore, come l’Amore di Dio potrebbe abitare in lui? Figlioli non amiamo a parole o con la lingua, ma con fatti, veramente (1 Giovanni 6, 16 -1) perché “la fede senza le opere è morta” (Gc2,26)
La sofferenza posandosi inevitabilmente su tutti gli uomini, dovrebbe generare in loro unità e condivisione dell’umana miseria invece di generarne altra con conflitti, guerre, dissidi, povertà e morte. Soffrire un dolore con amore oblativo diventa redenzione: ce ne danno esempio i Santi ma anche persone semplici che offrono al Signore le loro sofferenze unendole a quelle della Croce.
“Tu dici Gesù, che se l’amore non soffre e non si sacrifica non è amore. Che insegnamento, Dio mio! Capisco perché è così forte il tuo amore, ora capisco perché è fuoco che riscalda, brucia e consuma: hai sofferto, tanto, tanto…!” (Madre Speranza)
Alla sofferenza infatti non si è sottratto il Figlio di Dio. Egli assumendo la natura umana ha posato il suo sguardo di compassione su quelli che erano nel pianto chiamandoli “Beati” e sulla croce alzando gli occhi al cielo ha chiesto “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”. Il Crocefisso del Santuario di Collevalenza riproduce magnificamente quello sguardo d’amore, che un pellegrino ha definito dorato.
Madre Speranza da brava portinaia, apriva la porta del suo cuore alle sofferenze di quanti volevano incontrarla:
“Io amati figli e figlie, devo dirvi che vivo giorni di vera gioia ed emozione per il compito che vengo svolgendo in questi mesi nella casa di nostro Signore, facendo da portinaia di coloro che soffrono e vengono a bussare a questo mio nido d’amore perché Lui, come Buon Padre, li perdoni dimentichi le loro follie e li aiuti in questi momenti di dolore. Sono qui, figli miei ore e ore, giorni e giorni, ricevendo poveri, ricchi, anziani e giovani, tutti carichi di miserie: morali, spirituali, corporali e materiali. Alla fine del giorno vado a presentare al Buon Gesù, piena di fede, fiducia e amore, le miserie di ognuno, con l’assoluta certezza di non stancarlo mai, perché so bene che Lui, da vero Padre, mi attende ansiosamente affinché interceda per tutti quelli che sperano da Lui il perdono, la salute, la pace e ciò di cui hanno bisogno per vivere.
Ed Egli che è tutto Amore e Misericordia, specialmente verso i figli che soffrono, non mi lascia delusa e così vedo con gioia confortate tutte quelle anime che si affidano all’Amore Misericordioso”
Quanti hanno avuto la grazia di conoscerla e di incontrarla, non possono dimenticare il suo sguardo penetrante che leggeva l’anima. Ad esso non sfuggivano le miserie del passato, del presente e del futuro ma il suo cuore si dilatava maggiormente d’amore prendendole su di sé.
“Sopportate i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2) e i pesi affaticano, fanno male, sconvolgono fisicamente e moralmente come è stato per il Cireneo ma quanta purificazione! Il dolore nostro e altrui, aiuta a spogliarci del vestito malfatto che copre le nostre miserie, la sofferenza genera il vuoto in noi stessi liberandoci dalle scorie dell’anima. Ci si sente rinnovati, alleggeriti e consapevoli che a nulla valgono gli screzi, le invidie, gli egoismi, i rancori di tutti i giorni.
Tuttavia, prove forti possono incidere negativamente sui più fragili, possono allontanarli dal Signore ritenuto causa ed artefice di quei mali, possono far isolare la loro anima, racchiudendola in un bozzolo di egoismo, di insensibilità ai problemi del prossimo (aridità dell’anima, povertà interiore), possono indurli a cedere al maligno.
Allora “In un autentico clima di famiglia, afferma ancora Madre Speranza, dobbiamo identificarci con i poveri, sentendoci corresponsabili del male che essi potrebbero fare qualora non mettessimo in opera ciò che la capacità creativa dell’amore deve suggerirci” (LC, 8 dicembre 1938)… Spogliandomi da ogni pregiudizio, dalla presunzione dell’io, potrò operare con fede, speranza e carità… cerchiamo di acquistare la vera umiltà, fondata sulla grandezza e santità del buon Gesù e sulla nostra povertà e miseria” .
Ma a questo punto, sorge spontaneo un interrogativo.
Se questa catarsi ci spoglia “dell’uomo vecchio” per rivestirci “dell’uomo nuovo” bisogna che l’uomo soffra?
La sofferenza non è voluta né da Dio, né dall’uomo, è la conseguenza del male nel mondo, della deviazione degli uomini, della fragilità umana acquisita a causa del peccato originale. Ma il Cristo si è caricato di questo bagaglio pesante per alleggerirlo totalmente con la sua Passione dolorosa. Contemplando il Crocefisso abbiamo la risposta. “Senza staccare lo sguardo dal Crocefisso ero felice; Lui mi ha dato la forza anche quando mi sono trovata disprezzata, sola e senza affetto, privata anche delle cose necessarie; non mi sono lamentata e così ho imparato ad amare” (Madre Speranza El Pan 5,79)