LA FAMIGLIA BATTAGLIA (Dada)
Approfittando di una brutta influenza, che mi ha tenuta a letto quasi una settimana, ho provato a leggere un libro che, se fosse stato per il titolo: “Le valli del Tannino”, non avrei mai pensato di aprire. Il sottotitolo invece cominciava a dire qualcosa, circa alcune famiglie monregalesi, che in qualche modo mi riguardavano da vicino.
Quando mi sono sposata, qualcuno mi aveva avvertita che sarei entrata in una famiglia speciale, ma io non me ne sono mai resa conto sino in fondo e, forse, qualcosa in più l'ho capito solo ora, leggendo questo libro.
Tutti schivi in famiglia e di poche parole, come un po' i piemontesi di questo luogo chiuso tra le Alpi Marittime, da un lato e la zona collinare delle Langhe, dall'altra.
Qualche volta Nini mi diceva di nonno Carlo Giuseppe, della sua intelligenza, del suo coraggio, della sua fede in Dio, salda come una roccia. Ed io mi guardavo intorno e vedevo un benessere, che sapevo provenire da questo grande uomo, di cui mio marito ha avuto il privilegio e la responsabilità di essere nipote.
Quando sono entrata a far parte di questa grande famiglia, ricordo in particolare il modo, da parte dei suoi componenti, di affrontare la vita con intelligenza, sia nelle scelte difficili, sia nelle piccole cose del quotidiano e così anche, purtroppo, nei grandi dolori, che hanno segnato l'esistenza di alcuni familiari.
Gente dai gusti sobri, i Battaglia, sono quasi tutti amanti della natura e delle passeggiate in montagna, dello sci e delle “rimpatriate” in famiglia, almeno due volte l'anno, per una grande festa fra di loro, a mangiare qualcosa insieme, in semplicità; questo per conoscersi meglio, per rispetto ai “grandi vecchi”, fratelli e sorelle, che hanno segnato la storia di una famiglia ancora patriarcale, nonostante i tempi.
E io continuavo a guardarmi intorno, in questa grande casa, bella e ben costruita, ma senza segni di ricchezza ostentata, allietata dal canto dei canarini, che ci salutavano dalla grande scala che conduce al piano rialzato. Ancora qualche passo e si arrivava al grande soggiorno, luogo d'incontro e di passaggio per tutti. Lì si mangiava, si chiacchierava, si stava insieme a godere della presenza dei “vecchi”, che di anno in anno, lasciavano questa vita, con dignità, intelligenza e serenità d'animo: nessuno di loro è vissuto senza aver posto il marchio indelebile di un esempio unico ed edificante per i posteri.
Da una parte vedevo la Banca, con zia Milia alla direzione, ed i suoi fratelli, seri, presi dal loro lavoro e poi, sempre lei, in casa ai fornelli ad aiutare la sorella Dena, o a stirare montagne di roba, mentre tutti si veniva coinvolti nella recita del Rosario; dall'altra vedevo le fabbriche di S. Michele, che impegnavano le vecchie generazioni ed ora i nipoti e i pronipoti di Carlo Giuseppe. Gente che “sa il fatto suo”. Ma poi, quando li incontravo in casa, nel quotidiano della vita di famiglia, tra fratelli, zii, cognati, cugini, nipoti, vedevo tutte persone semplici, dalle scelte di vita essenziali.
C'era tanta vivacità intorno a me, data dalle numerose nascite che venivano, anno dopo anno, ad allietare questa grande famiglia patriarcale, dove nonno Carlo Giuseppe aveva lasciato i segni del suo coraggio, della sua intelligenza e della sua generosità.
Io ero frastornata ed insieme quasi incredula di essere entrata in una famiglia che a me pareva da favola. Io, che avevo vissuto il mio quotidiano pieno sempre di problemi esistenziali, in una famiglia molto provata dalla guerra, costretta ad attraversare l'Oceano con la nave degli emigranti, per cercare fortuna in Argentina. E poi, il ritorno in Italia, il commercio di papà da incrementare, lavorando anche di notte, quando necessario. Era tutta un'altra realtà la mia.
Quando sentivo parlare mia suocera o quando la vedevo, bella ed elegantissima, pronta per uscire a fare compere, mi sembrava che il mondo in cui ero vissuta prima fosse quello sbagliato, che il vivere giusto fosse il suo, fra una pacata conversazione e l'altra, finalmente senza dover parlare sempre con preoccupazione di soldi che non bastavano mai e di rate in scadenza, di prestiti in banca e di responsabilità che mi sentivo addosso quasi come una colpa.
Mio suocero poi, finite le sue ore in Banca, era finalmente libero di occuparsi del suo grande hobby: l'arte culinaria. Lo ricordo per le strade di Mondovì, figura imponente di quasi un metro e novanta, con la borsa della spesa, da cui fuoriusciva qualche ciuffo di verdura e con il pacco del pane, che sgranocchiava tornando a casa, con la sua tipica andatura dondolante.
E poi me lo vedevo ancora in cucina, con Teresa, a preparare i pranzi per noi, spesso invitati alla sua tavola. E lui a capo tavola, che si aspettava soddisfatto un commento, ed io, che non osavo guardarlo, col cuore gonfio di pianto a pensare che quest'uomo aveva fatto esperienza dei campi di concentramento ed era tornato defedato nel fisico, mai guarito completamente.
Solo una volta mi fece entrare in cucina, il suo “tempio”, ed io ne fui onorata, per aiutarlo a preparare la casetta di Hansel e Gretel, tutta di cioccolato e glassa, e gallette al miele per le nipotine. Poi nessuno osava mangiarla: l'abbiamo chiusa nel salotto del pianoforte, tanto era bella, ma una nipotina un po' troppo intraprendente finalmente ci arrivò a rubarne un pezzetto, e così….
Oggi sono stata ospite a pranzo, con Nini, da mia figlia, che vive sola. Ho guardato con occhi nuovi questi due Battaglia della mia vita e il cuore mi godeva in modo speciale, vedevo in essi il passaggio di tutti coloro che hanno lasciato qualcosa di famiglia nei loro cromosomi; sono il simbolo vivente della vera eredità, quella del sangue che scorre nelle vene e che contiene anche il nome di nonno Carlo Giuseppe. C'era semplicità nel loro atteggiamento. Anna serviva in tavola, il padre ne godeva la presenza. Lui, così difficile nelle scelte del cibo, oggi ha mangiato tutto, godendo del sogno di una famigliola unita e amante di Dio Padre, proprio come ha insegnato nonno Carlo Giuseppe.
Un po' di fantasia Mistica
(tratto da "Istruzioni di voto per aquile e polli", Piemme Edizioni)
Un giorno Dio si stancò degli uomini. Lo seccavano in continuazione, chiedendogli qualsiasi cosa. Allora decise di nascondersi per un po' di tempo. Radunò tutti i suoi consiglieri e chiese loro: "Dove mi devo nascondere? Qual é il luogo migliore?". Alcuni risposero: "Sulla cima della montagna più alta della terra". Altri: "No, nasconditi nel fondo del mare, nessuno ti troverà". Altri: "Nasconditi sul lato oscuro della luna; questo è il posto migliore. Come riusciranno a trovarti là?"
Allora Dio si rivolse al suo angelo più intelligente e lo interrogò: "Tu dove mi consigli di nascondermi?". E l'angelo intelligente, sorridendo, rispose: "Nasconditi nel cuore dell'uomo! E' l'unico posto dove lui non va!".
Povertà Iolanda Lo Monte
La povertà proclamata da Gesù non deve essere solo la caratteristica di ogni cristiano, ma il destino e la beatitudine della Chiesa e della comunità in quanto tale.
Una delle revisioni forti a cui il Concilio ha chiamato la Chiesa è la povertà. Non è forse da una certa ricchezza di mezzi, da un certo attaccamento al denaro e al potere entro la Chiesa che nasce in molti cristiani un senso di disagio? Nelle nostre assemblee eucaristiche sono presenti oggi molte persone che hanno disponibilità di mezzi e di cultura. Essi non sono mai dispensati dal ricercare le vie della povertà e dal servire i propri fratelli che sono nell'indigenza, perché è ancora e sempre nei poveri che si incontra Colui che è venuto a salvarci.