UNA PROFEZIA DEL 1969
Dal Vivaio di Vittorio Messori
Nel 2013 è stata ripubblicata da La Stampa - il “mio” vecchio quotidiano torinese - ma vale la pena di riprenderla, in questi tempi in cui ci si interroga sul futuro della Chiesa, se non sul futuro della fede stessa. È quella che è stata chiamata “la profezia dimenticata del professor Joseph Ratzinger”. Colpisce che sia stata espressa nel 1969, a soli quattro anni dalla fine di quel Vaticano II dove il giovane teologo era presente come esperto dell’episcopato tedesco ed era schierato seppur da persona equilibrata, lontana da ogni eccesso, com’è nel suo carattere - nel gruppo dei cosiddetti “progressisti”. Poi ci fu, imprevisto, il travisamento dei documenti, la manipolazione, l’interpretazione faziosa, ci si inventò un immaginario “spirito del Concilio” e successe quel che sappiamo. La contestazione di certo clero e di laici clericalizzati fu moltiplicata dal fatto che all’eccitazione ecclesiale si unì quella del mondo, con quel delirio che fu chiamato Sessantotto. Così un Paolo VI finiva per confidare, sgomento: «Ci si aspettava una primavera per la Chiesa e invece è giunto un rigido inverno».
Fu così che il professor Ratzinger cominciò a essere guardato con sospetto dai suoi colleghi “adulti” e, sbrigativamente, qualificato come “convertito alla reazione”. Tanto da dover cambiare università, visto che certi docenti convertiti ai precari “segni dei tempi” gli aizzarono contro gli allievi. Come è noto (la frase è stata più volte ripresa dai media di mezzo mondo), quando gli chiesi, nell’intervista di tre giorni da cui nacque Rapporto sulla fede, se è perché dopo il Concilio avesse cambiato prospettiva, lasciando - a livello teologico gli amici di un tempo, mi rispose deciso: «Non sono cambiato io, sono cambiati loro». Ebbene, nel 1969, mentre infuriava la contestazione dentro e fuori la Chiesa, all’ancor giovane docente di teologia fu chiesta una conferenza sull’avvenire del cattolicesimo. Vale la pena di riportare alcune delle sue convinzioni che appaiono davvero profetiche e che - nel loro duro realismo - sono tuttavia motivo di speranza. Disse, tra l’altro, il futuro Benedetto XVI: «Da questa crisi emergerà una Chiesa che avrà perso molto: edifici, fedeli, sacerdoti, privilegi sociali, una Chiesa molto ridimensionata, costretta dalla scarsezza di seguaci ad abbandonare buona parte dei luoghi di culto
- molto spesso splendidi per dimensione e valore artistico - costruiti con sacrificio in tanti secoli. Una Chiesa cattolica diventata minoranza anche là dove riuniva popoli interi, politicamente e socialmente irrilevante, umiliata e costretta a ricominciare dalle origini. Ma sarà anche una Chiesa che, attraverso questa apparente disfatta, ritroverà se stessa e rinascerà, alleggerita e semplificata, più vigorosa e più missionaria».
Continuava il professor Ratzinger: «Si ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti di fedeli con pochi mezzi e con molta convinzione e tenacia che rimetteranno la fede in Cristo risorto al centro della loro vita e della loro speranza. Sarà una Chiesa più spirituale, che rinuncerà a ogni tentazione di flirtare con una sinistra o una destra politiche». Infine: «Ma, intanto, gli uomini avranno scoperto di vivere in un mondo di solitudine e si accorgeranno della loro indigenza. Allora - e solo allora - vedranno quel piccolo gregge di cattolici superstiti come qualcosa non di antico, di anacronistico, ma di totalmente nuovo. Lo riscopriranno come una inaspettata speranza, come la risposta che avevano sempre cercato in segreto». È una citazione - i lettori ne converranno - che vale la pena di far riemergere, dopo tanti anni: per me, per quanto conta, questa “profezia” non è motivo per rattristarsi ma per confermarsi nelle parole di Gesù sul “gregge piccolo” che non dovrà temere il futuro, perché non gli sarà mai permesso di venire meno.