(Continua dal numero precedente)
FINALMENTE A CASA MIA
Io continuavo a desiderare sempre di più di ritornare per sempre a casa mia, ma vedevo che non c’era nessuna speranza e continuavo a sopportare tutte le soperchiere della signora Anna: ma ogni cosa ha il suo limite, e una mattina la signora uscì come al solito, per sbrigare diverse faccende. Io rimasi a casa per fare i lavori e non andai a scuola.
Non sapendo come fare contenta la signora Anna, mi venne la felice idea di pulire il lampadario del salotto. Mentre ero salita nella scala, intenta a pulire, sento aprire la porta e subito mi trovo davanti la signora. Io mi aspettavo da lei degli elogi, ma invece dal suo viso capii che stava per scoppiare una delle sue solite bufere. Infatti, subito mi aggredì con grida, tirandomi dalla scala con furia da farmi quasi cadere, e poi bastonandomi mi diceva: “Chi ti ha detto di pulire il lampadario? Dovevi fare quello che ti ho dettolo?” Insomma si arrabbiò per il fatto che non l’avevo ascoltata, forse anche perché aveva paura che io cadessi dalla scala e potessi prendere la corrente elettrica. Però ci sono modi e modi per far capire certe cose, infatti io ci rimasi molto male per il modo come fui aggredita. Piangendo le dicevo che volevo farle una sorpresa, ma lei non volle sentire nessuna ragione.
Intanto si sfogò come una bestia e, poi una volta più calma sono certa che capì il mio gesto, perché mi pendeva con le buone. Mi chiusi in silenzio pensando ancora una volta, come potevo
farla finita per sempre.
Il giorno successivo mi mandò da una signora che conosceva anche mia madre. Aveva il panificio alla pescheria. Ci lavorava mio fratello Domenico, come fornaio.
Mi disse di andare dalla panettiera per riscuotere il mensile e prendere il pane. Il mensile, significava che a signora Anna prestato dei soldi, e la panettiera le restituiva un tanto al mese e le dava anche il pane. Per me, quel giorno, fu una liberazione uscire di casa, perché strada facendo progettai quello che dovevo fare.
Non ce la facevo più a stare in quella casa, e volevo farla finita, perché vedevo che non c’era nessun modo per liberarmi dei due “signori”, soprattutto di lei.
Così andai da questa signora, mi consegnò i soldi e il pane come mi era stato detto. Questa signora, sapendo che ero la sorella di Domenico, mi trattò bene. Aveva tanti bei figli, maschi e femmine, salutai tutti e andai via. Però per non ritornare dalla signora Anna.
Andai alla Upim, e con quei soldi comprai una scatola di veleno per scarafaggi che già conoscevo bene e che avevo già ingerito una volta. Dopo di che presi il tram e decisi di andare al cimitero. Arrivata lì, prima visitai mio padre e piansi tanto, tanto che le lacrime arrivavano a bagnare la terra che lo copriva. Parlavo con lui come se mi stesse a sentire. Gli raccontai tutto quello che avevo passato dalla signora Anna, confessandogli anche quello che volevo fare di me. poi, lentamente andai nei gabinetti del cimitero e presi una bella boccata di quel veleno.
Ritornai da mio padre sicura di dover morire accanto a lui, ma il tempo passava e niente accadeva. Mi guardavo attorno, c’era poca gente ed era una bella giornata di sole, mi chiedevo dove fosse sepolta la povera Graziella.
Che stupida che ero! Credevo di poter morire subito. Ritornai nei gabinetti e ne presi un’altra dose, magari di più, ma niente, nemmeno un mal di pancia.
Il tempo passava e capivo che fosse l’ora di pranzo, perché ero rimasta solo io. Non avevo nemmeno fame, benché avevo il pane che mi aveva dato quella signora. Insomma, presi un’altra dose di quel veleno, ma niente. Ancora adesso mi chiedo come mai non mi fece niente.
Più tardi mangiai un po’ di quel pane, che però non mi andava giù.
Ero più tranquilla e serena e aspettavo solo di morire. Ma niente. Alla fine, era già pomeriggio, perché vedevo la gente che andava via e poi lo capivo dal sole, e sentivo anche un po’ di freddo.
Chiesi ad una signora l’ora, ci mancava poco per le cinque, e aggiunse che tra poco chiudevano il cimitero. Io sentendo ciò, incominciai ad avere paura, paura di rimanere viva chiusa dentro il cimitero per tutta la notte. Così salutai mio padre, mi raccomandai a lui e mi accodai alle persone che uscivano.
Una volta fuori dal cimitero, presi il tram e scesi in piazza Jolanda. Non avevo nessuna intenzione di andare dalla signora Anna.
Presami di coraggio mi diressi verso casa mia, però, prima di entrare nel portone presi dalla borsa la scatola di veleno e la buttai nel giardino che era accanto alla palestra, che quasi distrutta, perché al suo posto stavano costruendo un palazzo. buttato via il veleno, entrai nel portone, scesi le scale come un automa, ero come impietrita. Arrivai davanti alla porta, ma proprio in quel momento stava uscendo Gino e tutti gli altri erano dietro di lui. appena mi videro, tutti in coro dissero: “Oh… Luisa dove sei stata?” Dai loro visi e dalla loro esclamazione, capii che erano stati avvertiti dalla signora Anna della mia assenza.
Gino disse: Stavo per andare alla Questura e aggiunse: “Mi ero detto che una volta trovata ti avrei bastonato, ma adesso che ti ho davanti, sana e salva, dalla gioia non ne ho più il coraggio”.
Mi abbracciò felice e commosso e con lui tutti gli altri. Di nuovo mi chiesero dov’ero stata, io risposi che ero stata al cimitero. Naturalmente nascosi loro che avevo tentato di avvelenarmi. Non so ancora il motivo perché lo nascosi, forse perché credevo che non mi avrebbero capita, né avrebbero compreso il motivo di quel folle gesto! Però devo dire che quel folle gesto servì a qualcosa che io desideravo sin dal primo giorno che andai dalla signora Anna.
Rimasi da quel giorno e per sempre a casa mia.
Iniziai a fare una vita tutta diversa da quella che facevo dalla signora Anna.
A scuola non ci andai più, perché mi vergognavo rispetto agli altri riguardo alla differenza di età, anche se non ero la sola.
A casa si parlava poco e niente della signora Anna. Io ero tanto felice di fare parte della mia famiglia. Assaporavo tutto quello che succedeva, sia di bello che di brutto. Ci dividemmo i lavori di casa, io e Rachele, naturalmente anche le pulizie della scala.
Quando la sera eravamo tutti in cassa, si stava tutti insieme e si parlava di tante cose. Per esempio si rievocava la morte di nostro padre, io a sentire tutti i particolari, mi rattristavo e mi scendevano le lacrime silenziosamente. Provavo tanta amarezza per non essere stata presente in quei suoi ultimi giorni di vita.
Col passare del tempo, venivo a conoscenza di tante cose che prima mi era stato impossibile sapere, sia riguardante il periodo della guerra, perché allora ero molto piccola, sia altre cose accadute dopo guerra e durante la mia assenza. Per queste ultime provavo nostalgia, e a volte anche gelosia, non so se è giusta la parola, ma credo di si, perché quando si parlava di qualsiasi cosa, parlavano soltanto loro: Io ascoltavo solamente perché lì per lì non avevo niente da raccontare ma in seguito mi feci coraggio e cominciai anch’io a far sapere le mie storie, e man mano che parlavo rimanevano dispiaciuti dalle mie sofferenze passate.
Dunque, come dicevo, ascoltavo con tanta avidità le cose che erano successe in passato, e su di una mi voglio soffermare.
Mi raccontavano che io ero viva per miracolo, quando durante la guerra avevo circa un anno. Mi teneva in braccio mia sorella Rosa seduta su una panchina, quando si ritira nostro zio, marito della sorella di mia madre. Egli possedeva un cavallo e doveva legarlo ad un albero proprio davanti dove era seduta Rosa con me in braccio. Lo zio disse a Rosa di togliersi perché doveva metterci il cavallo. Io piangevo perché avevo fame, quando all’improvviso incominciarono a sparare bombe a più non posso. Una scheggia andò a finire proprio nel punto dove era seduta Rosa con me. il povero cavallo ebbe la peggio perché morì spezzato in due: Io e Rosa ci siamo salvate.
(Continua al numero successivo)