INFANZIA DI MARIA LUISA
(Ho scritto la mia storia esortata dalla psicologa che mi ha tenuta in cura per diversi anni)
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Sono Maria Luisa, nata a Catania. Vengo da una famiglia numerosa, mio padre Rosario, mia madre Rosa, e dieci figli (due morti e otto viventi) con mia nonna materna. Questi sono i nomi delle mie sorelle e fratelli in ordine di età. Rosa, Biagio, Pierina (morta), Maria, Domenico, Pierina, Rachele, Giovanni, Maria Luisa e Graziella (morta).
Si sa che subito dopo la guerra c’era miseria dappertutto, specialmente nelle famiglie numerose come la mia, quindi soffrivamo la fame e delle mancanze di tante cose di prima necessità.
Mio padre era ammalato soffriva di asma e non ha potuto più lavorare come prima. Percepiva solamente una misera pensione di invalidità. Vicino a casa nostra c’era una bettola dove spesso egli andava per trovare gli amici, e tra una chiacchierata e un’altra gli piaceva bere un bicchiere di vino ed essendo debole per la malattia, gli bastava poco per andare su di giri. Si può immaginare che mia madre non aveva da lui grande aiuto. Nonostante tutto mio padre era un brav’uomo, ci voleva bene e soffriva per essere stato sfortunato.
Mia madre si dava tanto da fare, onestamente, per mandare avanti tutta la famiglia. Trovò lavoro in un Istituto per le Case Popolari, e inoltre si recava al mercato con Gino e Domenico a comprare della frutta e verdura per poi rivenderla. Rosa e Maria si occupavano della casa. Pierina e Rachele provvedevano alle pulizia della scala del condominio e saltuariamente stavano dentro la guardiola per smistare la posta e metterla nelle varie cassette.
La nostra casa era situata nei sotterranei: si scendevano due rampe di scale e alla fine c’era un grande spazio con diverse porte. In quasi tutte c’era una stanza, mentre da una di queste partiva un lungo corridoio con altre porte e relative stanze. Questo corridoio era talmente abbandonato da fare paura a chiunque. La nostra casa era alla fine della scala, a destra della piazzola, da dove partiva un altro corridoio con altri scantinati molto più accoglienti; noi abitavamo in uno di questi. Questo palazzo era accorpato con altri edifici e ogni portineria poteva comunicare con gli altri portieri e con gli inquilini di tutti gli edifici, attraverso un grande cortile. Per ogni sottoscala, (dove abitava la portinaia) c’era una finestra che dava su questo cortile. Casa mia era composta da due camere grandi con delle finestre in alto che davano sulla strada e precisamente in via Isonzo. Nella parte di sinistra c’era il bagno e la cucina abbastanza grandi con le aperture che davano sul cortile. Il bagno con una grande finestra e la cucina con il balcone, più buie soprattutto d’inverno. Quando c’erano belle giornate dalle finestre delle camere filtrava un raggio di sole. Le porte degli scantinati erano sempre socchiuse e avevano le cerniere arrugginite, che spesso d’inverno stridevano e mettevano paura. Entrava il vento, li sbatteva forte e le faceva cigolare. Di sera soprattutto, per chi si ritirava tardi, attraversare quei corridoi faceva rabbrividire, e poi quando eravamo a letto, quei rumori ci mettevano una grande paura.
Della mia primissima età ricordo ben poco, e solo alcuni fatti sono rimasti impressi nella mia mente. Ricordo mio padre; era un uomo mite, era alto circa un metro e sessanta, aveva i capelli neri, gli occhi verdi e la carnagione chiara. Per me era tanto bello e buono, e mi permetteva di fare tutto quello che volevo. Io giocavo con la mia sorellina più piccola, Graziella, e con mio fratello Giovanni. Erano entrambi belli, avevano i capelli chiari, soprattutto Graziella, sembrava un angioletto con tutti quei riccioli d’oro. Un giorno eravamo seduti sullo scalino della porta della cucina. Mia mamma aveva dato a ciascuno di noi un piatto di pasta e fagioli, eravamo affamati, ad un tratto Graziella si rivolge a Gianni e gli dice: “Mi dai un po’ della tua pasta?”. Gianni le risponde di no. Dopo mi rivolge la stessa richiesta ed io le risposi allo stesso modo, aggiungendo, “Ho fame anch’io!” Allora, come per ripicca, mi dà uno spintone e la pasta va a finire tutta per terra. Io, piangendo, le mollo uno schiaffo (in quel suo visino d’angelo. A questo punto della mia narrazione si creò un gran silenzio nello studio della dottoressa che mi interrogava, mi venne un nodo alla gola tanto da non poter più continuare a parlare). Notai che gli occhi della dottoressa erano lucidi mentre mi esortava a continuare. Pensate! Io al tempo di questi fatti avevo circa quattro anni e mezzo e Graziella la metà di me. Continuai il mio racconto.
Rosa, la mia sorella maggiore, si fidanzò allora con un bravo giovane di nome Orazio che, essendo tempo di guerra, dovette partire per il servizio militare. Rosa era una bella ragazza, pertanto aveva altri pretendenti. Orazio saputo ciò, durante una licenza convinse Rosa a fuggire con lui. Aveva appena 17 anni. Io naturalmente non potevo capire quel che succedeva, compresi solo dopo tempo. Maria, l’altra mia sorella, si fidanzò anch’essa giovanissima; era bella anche lei e a volte la gente vedendoci dicevano: “Certo,che donna Rosa e don Saro hanno dei bei figlioli.”
Il fidanzato di Maria era più grande di lei di 16 anni. Mamma, giudicandolo un bravo ragazzo, non badò alla differenza di età, e acconsentì al fidanzamento e non si era sbagliata.
Ricordai anche che davanti al nostro portone c’era una grande palestra all’aperto dove giocavano i figli degli inquilini, noi e i figli degli altri portieri. A destra dell’edificio, in via Ronchi, circa a cinquanta metri c’era una fontana, alle spalle della fontana c’era un grande giardino, a sinistra ci stava un chiosco nel quale mamma tempo prima vendeva la frutta, poi lo dette in affitto per poche lire. Tutto intorno c’erano altri giardini e ville.
Da questa fontana attingeva acqua tutto il quartiere, sia per bere che per uso domestico, perché spesso nelle case mancava l’acqua.
Purtroppo io in questa fontana ho un bruttissimo ricordo, che, come mi disse la stessa psicologa, segnò la prima esperienza negativa. Ecco il fatto: un giorno mi trovavo lì con Graziella, che mentre giocava scivolò a pancia in giù nell’acqua che proprio quel giorno era molto abbondante. Cercai disperatamente con le mie braccine esili di tirarla su, ma non ci riuscii, sicché mi misi a gridare forte: “Aiuto, aiuto!”. Non saprei dire quanti minuti passarono, finalmente, venne in aiuto uno dei figli di quei signori a cui mamma aveva dato in affitto il chiosco. Era un tipo piuttosto rude, che alzò Graziella da terra e intanto mi rimproverava duramente.
Non ricordo bene le parole che mi diceva, ma ricordo che mi diede un ceffone che mi fece bruciare il viso per diversi giorni. La psicologa disse che disapprovava il comportamento del soccorritore. Io, gridando e piangendo, dicevo: “Non ho colpa, se non ce l’ho fatta a tirarla su”.
Quello che successe dopo non lo ricordo, però mi fu raccontato che portarono mia sorella in ospedale dove cercarono con ogni mezzo di salvarla. Tutto fu vano.
Vedendo che la bambina stava per morire, i dottori dissero a mamma di portarla a casa, altrimenti, una volta morta doveva essere tenuta in ospedale. Mamma chiamò una carrozza e si avviò verso casa. Durante il tragitto volle passare davanti alla Chiesa della Madonna del Carmine che si trova nella piazza del grande mercato. Quando fu sul sagrato scese dalla carrozza con la bambina in braccio e pregando si rivolse alla Madonna. In quel momento la bambina spirò!...
Sento ancora adesso le grida di mia mamma quando arrivò a casa chiamando sin dal portone: “Maria, Gino, Piera… venite, venite la bambina è morta, non c’è più Graziella”. Come potrei dimenticare quelle grida? I miei fratelli andarono incontro a mamma, mentre io rimasi giù in casa immobile con gli occhi sbarrati nel vuoto. Ricordo che venivano tante persone a vedere la bambina, che era tanto bella pur morta e sembrava un angelo che dormiva.
Quando venne Nino, il fidanzato di Maria, e vide ciò che era successo scoppiò in un pianto dirotto: ala bambina voleva tanto bene. Mamma, prima che portassero via la piccola Graziella, le volle fare una fotografia così com’era, tutta vestita di bianco, come un angelo, e le tagliò anche un ciuffo di capelli.
A questo punto del mio racconto scoppiai a piangere e la dottoressa, commossa, mi disse che per quel giorno era meglio smetterla e che andassi a riposare.
(Il racconto continua al numero successivo