(Continua la storia di Maria Luisa)
Io salì in reparto; era l’ora di pranzo, ma non avevo appetito, mi sentivo un po’ agitata e scossa dai tristissimi ricordi. Venne la sera e non vedevo l’ora che passasse la notte, avevo una tale agitazione che non potevo dormire e feci dei sogni strani, ebbi incubi, ne avevo molti, frequentemente, e mi svegliavo gridando e piangendo, e spesso vivevo in sogno quello che mi succedeva.
Finalmente si fece giorno. Dopo aver fatto colazione andai all’appuntamento con la dottoressa. Mi sentivo più rassicurata rispetto al giorno precedente.
Lei mi chiese come avevo trascorso il resto della giornata e come avevo dormito. Volle che le raccontassi anche i sogni, perché, come si sa, in psicologia i sogni contano molto. Dopo di ciò iniziai di nuovo a parlarle del mio passato… Ripetei il fatto della foto e del ciuffo di capelli di Graziella: Mamma ne fece un tesoro, li teneva in una busta nell’unica borsa che possedeva.
Maria prima di fidanzarsi lavorava in una fabbrica “La Limonina” dove facevano le essenze per le bevande. Rosa dopo un po’ di tempo si sposò e poco dopo andò ad abitare a Genova portando con sé il suo primo bambino che le era nato da poco. Si chiamava Claudio.
Maria andò a trovarla a Genova, però volle tornare subito perché sentiva la mancanza di mamma e di noi tutti, soprattutto di me. Ricordo che quando Maria si sposò. Eravamo tutti vestiti a festa, e io avevo un vestitino azzurro. Tutti i vicini di casa venivano a vedere Maria e io in disparte me ne stavo ad ammirarla, non so perché piangevo senza potermi trattenere. Sposata lei, in casa rimanemmo in sei, io divenni la minore, dopo la morte della piccola Graziella. Ho una scena davanti agli occhi che non potrò mai dimenticare:
Era un mattino d’inverno, pioveva a dirotto, stavo davanti alla porta della cucina, ero su una sedia dietro i vetri e stavo ricordando…: Pensavo, pensavo a quella scena di noi tre seduti lì davanti che mangiavamo, la sua richiesta della pasta, il nostro netto rifiuto, la reazione nel farmela cadere, e poi… quello schiaffo. Mamma e le mie sorelle mi chiesero perché piangevo, io risposi: “Perché Graziella si starà bagnando. Si, lo credevo veramente. Ah! Se potessi tornare indietro nel tempo, le avrei dato tutta la pasta che voleva e ritirarmi quello schiaffo.
Ricordo che dormivo nel mezzo del letto di mamma e papà, e ne ero tanto felice, qualche volta sentivo mamma dire a papà: Stai fermo Saro, non mi toccare, c’è la bambina, allora io non capivo cosa volessero dire. Spesso le mettevo la gamba sopra la pancia e lei non mi diceva niente, a volte mi mettevo sopra i cuscini di traverso, naturalmente tutto questo lo facevo mentre dormivo e certe volte sentivo la voce di mamma dire: mettiti sotto le coperte che ti raffreddi e sentivo le sue mani su di me che mi tirava giù e mi copriva. Quando c’erano belle giornate salivamo su nel portone, e si andava in palestra un po’ a giocare. Formavamo due gruppetti; i figli dei proprietari, io e Gianni con i figli degli altri portinai. Talvolta ci univamo tutti insieme, è chiaro che tra di noi si notava la differenza e vi assicuro che non era tanto bello, ma io ancora non capivo tanto bene e allora per me era bello lo stesso.
Ricordo che a Pasqua le campane le suonavano a mezzogiorno e vedevo quasi tutti i bambini vestiti a festa e con le ciambelle di Pasqua, quelle con le uova. Io ero senza ciambella e li guardavo, quando mi sentì chiamare da una signora del palazzo: “Luisa, vieni”. Io mi girai e andai, pensate, mi mise in mano una di quelle ciambelle; io ne fui tanto contenta, la guardai sorridendo e la ringraziai, la signora mi disse: “Buona Pasqua anche a te” e mi baciò. Tornai fuori gioiosa e felice, con la ciambella infilata nel braccio, come se fosse una borsetta e guardavo gli altri come per dir loro: Anch’io ho la ciambella come voi.
Devo dire che man mano che crescevo capivo che la gente non era tutta uguale, nel senso che tra quella gente superba che si sentiva chissà che, c’erano persone buone e generose anche verso tutta la mia famiglia. Com’era bello quando d’inverno, soprattutto la sera, stavamo tutti seduti attorno al braciere! In dialetto catanese “A conca”. Mangiavamo fave arrostite nel fuoco o ceci, raccontavano tante cose antiche o fiabe anche inventate e ridevamo felici ma, ahimè; non avrei mai immaginato che per me sarebbe tutto finito.
LUISEDDA E A “SIGNURA”
Mamma non vendendo più frutta e verdura, dopo un po’ di tempo trovò un altro modo di poter aiutare la famiglia. Comprava della biancheria e poi la rivendeva. In questo modo conobbe una signora, naturalmente lo capì con l’andar del tempo come la conobbe. Il fatto sta che un triste mattino mamma e papà mi dissero che dovevo uscire con loro: ricordo di aver chiesto loro dove andavamo, ma non ricordo bene cosa abbiano risposto, però ricordo che strada facendomi parlavano di una certa “Signora”. Devo confessare che di questo episodio ho la mente un po’ confusa, perché allora aveva appena sei anni e mezzo. Però ricordo bene che, non so come, mi trovai dentro una casa per me sconosciuta; esattamente ero nell’ingresso sopra lo zerbino vestita con una gonnellina, un golfino ed una giacca da maschietto che era di mio fratello Gianni. Avevo i capelli corti e due occhietti impauriti. Guardavo mio padre che parlava con questa signora senza capire cosa dicessero, capii però che mio padre e mia madre mi dissero: “Luisa, adesso tu rimani con la signora, più tardi verremmo a prenderti”. Così mi salutarono e se ne andarono. Io li guardai in silenzio e nello stesso tempo pensai che qualcosa non andava bene. Non avrei mai immaginato di non poterli rivedere di li a poco. Ero ancora sopra lo zerbino, quando mi si avvicina questa signora e suo marito, mi guardarono da capo a piedi e dissero: “Sai che sei una bella bambina? Come ti chiami?” Per me fu come se li avessi notati solo in quel preciso istante. La mia voce uscì appena: ”Maria Luisa” ; “Come hai detto?”, “Maria Luisa” – Ripetei un po’ più forte. “Anche il nome hai bello” rispose la signora. Si allontanò un attimo e suo marito rimase li con me; subito dopo ritorna tenendo in mano uno straccio e mi dice: “Mi fai vedere cosa sai fare? Vieni, spolvera con questo straccio la radio”, e mi indicò dove si trovava. Finalmente mi staccai da quello zerbino e mi fece entrare in una camera da lei chiamata “salotto”, nome per me del tutto sconosciuto. I miei occhi giravano attorno incuriositi, mentre mi mostrava la radio che dovevo spolverare. La radio era bella un modello tra i primi di allora, posata su un bel mobile che faceva anche da giradischi. Io a casa mia non avevo mai fatto nessun lavoro, però cercai di farlo bene, come per farmi dire che ero brava e infatti fu così. Non l’avessi mai fatto!…
I miei genitori non vennero a prendermi né quella mattina, come mi avevano detto, né il pomeriggio e nemmeno nei giorni successivi. Non ricordo bene il modo come rimasi lì a dormire, però ricordo che chiedevo spesso dei miei genitori e la signora mi faceva certi discorsi che ancora non riuscivo a capire tanto bene. Per esempio: “Sai, Luisa, per un po’ di tempo tu resterai con noi, poi chissà se un giorno tornerai a casa tua”. “Ma io voglio andarci adesso a casa mia”, e lei non mi rispondeva, e così rimanevo con la speranza che mia mamma mi venisse a prendere al più presto e cercavo di fare la brava proprio per questo motivo, perché avevo paura che se avessi fatto la monella, la signora lo avrebbe raccontato a mia madre ed avevo il timore di rimanere ancora là per castigo. Purtroppo, per mia sfortuna, fu proprio così.
Infatti la signora a poco a poco me lo faceva capire con parole e fatti. Cioè: Mi diceva che io dovevo stare con loro perché a casa mia erano in tanti e non c’era tanto da mangiare né come vestirsi. Mi ripeteva sempre: “Per questo tu sei pallida e magra, sei venuta con la giacca di tuo fratello”. Io non capivo tanto bene, però la guardavo e piangevo.
(Continua al numero successivo)