(Continua la storia di Maria Luisa)
BREVE RITORNO A CASA MIA
Un giorno ero da sola con il signor Angelo. Ero salita nell’ammezzato che stava sopra la cucina. Quando stavo per scendere misi, forse, i piedi troppo in punta a un gradino e caddi. Il signor Angelo venne di corsa sentendo il rumore. Mi alzò da terra e mi portò nel mio letto. Mi ero tutta graffiata e, come quella volta quando caddi a Zafferana, mi mancò la voce per un po’. Lui che era da solo tremava per lo spavento e mi chiamava ripetutamente e nello stesso tempo mi dava coraggio, dicendomi che non era successo niente di grave. Quando rincasò la signora le raccontò l’accaduto. La voce mi ritornò piano piano. La signora riprendendosi dalla paura, vedendomi in quel modo, con il solito coraggio, rincuorava me e suo marito.
Venne Natale. Io mi trovavo a casa mia, però… A questo punto non ricordo bene se ero a casa per le feste di Natale o per altri motivi. Credo che era per altri motivi. Forse ero a casa perché la mamma aveva ripreso l’argomento con la signora Anna riguardo alla mia dote, e siccome la signora era irremovibile, la mamma mi riportò definitivamente… (così sembrava) a casa mia. Avevano litigato di brutto!
Certo per me fu bello sapere che non dovevo ritornare più dalla signora Anna, anche se non mi era facile riadattarmi a casa mia, da dove mancavo da circa cinque anni e mezzo. Anche se di tanto in tanto ci andavo, starci solo per un po’, non era la stessa cosa, perché, altro era stare sempre lì, altro starci solo per poco: Succedeva infatti che proprio quando incominciavo ad assaporare il calore della famiglia, pur sentendomi come un pesciolino fuor d’acqua, mi rattristava assai il fatto che mi veniva a mancare quel calore; quell’affetto della mia famiglia. Così, quando lasciai la signora, credo che per me ci fu un capovolgimento di tutto per riambientarmi a casa dei miei, cioè a casa mia. Quello stesso anno nacque un secondo figlio a Maria. Era un bel maschietto che chiamarono Alfio, o meglio Alfiuccio, come avevano fatto con la sorellina Pina, che chiamavano Pinuccia. È chiaro che ero felice di stare a casa, però mi dispiacque tanto di aver perso l’anno scolastico, perché non andai più a scuola. Non so spiegarmi ancora il motivo. Forse perché la signora, nei mesi prima che io tornassi a casa, non mi mandava tutti i giorni a scuola.
Devo dire che ogni volta che giravo per le strade, vicino casa mia, trovavo qualcosa di nuovo. Alle spalle della famosa fontana, avevano costruito dei palazzi, dove c’era la fontana, stavano costruendo una strada, e parte dei giardini incominciavano a saltar via.
Pierina e Rachele erano ormai delle belle signorine e avevano di già i loro ammiratori. Speso, la domenica, andavano a ballare con Gino, e a volte anche da sole, di nascosto, perché Gino era molto severo, forse perché doveva fare le veci di mio padre. Però, dove andavano da sole a ballare, c’erano le stesse persone che già lui conosceva. Erano quasi della loro stessa età e abitavano vicino a mia sorella Maria. Una di queste diventò la mia madrina. Era sarta e io di tanto in tanto andavo da lei ad imparare il cucito.
Mia madre e le mie sorelle mi consigliarono lei come madrina, così una volta mi feci coraggio e le chiesi se fosse disposta a farmi da madrina. Mi disse di si, che l’avrebbe fatto volentieri. Si chiamava Cettina, era la più grande di tutta la comitiva delle donne. Aveva due sorelle sposate ed un fratello scapolo. Una di queste sorelle abitava vicino alla mia madrina, e aveva due figli maschi, di cui uno era già un bel ragazzo. E cosi, una volta si ballava da lui, poi da un altro e anche a casa mia, perché la mamma aveva comprato un bel mobile con la radio ed il giradischi incorporato. C’era da vedere e da ridere, perché Gino non faceva altro che allenarsi, ora con Pierina, ora con Rachele, ma di più con Pierina, perché come ho già detto, era un vero “Pierino”. Aveva il diavolo in corpo. Gino si sbizzarriva come voleva lui, la faceva girare di qua e di là, tante e tante volte, come boogy boogy, il charleston, il tango, il valzer e tanti altri balli.
Io nel frattempo stavo attenta e cercavo di imparare. Ci riuscii bene, soprattutto con il tango e il valzer che a me piacevano tanto, e anche con la famosa “raspa”. Osservavo divertita le giravolte di Gino. Mio fratello Domenico, Pierina e Rachele, sostenevano che Gino era il privilegiato della mamma forse perché era sfortunato nel lavoro e la mamma non gli faceva mancare il necessario e questo lo notavo anch’io. Gino da piccolo aveva imparato alcuni mestieri, cuoco, elettricista e altro, ma non aveva tanto fortuna. Forse per questo la mamma, per non scoraggiarlo, cercava di non fargli mancare quel poco che gli poteva dare.
Infatti ricordo che lui un tempo faceva il cuoco nella caserma dei Carabinieri di piazza G: Verga. Questo fu prima che la piccola Graziella morisse. Infatti mi hanno raccontato un episodio riguardo lei… La piccola Graziella era molto attaccata a Pierina, per il semplice motivo che era rimasta la più grande delle sorelle, una volta che anche Maria si era sposata. La mamma era spesso assente per lavoro e pertanto Graziella stava sempre attaccata a Pierina. Una volta Pierina doveva andare in un posto e Graziella voleva andare con lei, ma Pierina le disse di no. Pierina si allontanò senza accorgersi che Graziella le andava appresso. Però ad un certo punto Graziella la perse di vista e camminava vagando per cercarla. Si accorsero i Carabinieri, capirono che si era persa e se la portarono in caserma. La portarono in cucina dicendo ai cuochi di darle da mangiare, i Carabinieri si accorsero che Gino conosceva la bambina e gli chiesero in proposito. Gino fece l’occhietto a Graziella, per un’intesa, e rispose ai Carabinieri che la bambina abitava vicino a casa sua e che l’avrebbe accompagnata lui a casa finito il suo lavoro. I Carabinieri consegnarono la bambina a Gino e andarono via. Gino, finito il suo lavoro, si mise in spalla Graziella e strada facendo si fece raccontare come mai si era persa. Graziella, piagnucolando e vezzeggiandosi, gli raccontò come era andata. Finalmente arrivarono a casa e tranquillizzò tutti. Gino, non aveva detto la verità su Graziella che era sua sorella, in quanto, non sapendo perché si era persa, temeva che i Carabinieri pensassero male di lui e della famiglia.
Dopo qualche tempo, mia sorella Rosa, ritornò da Genova. La mamma la ospitò a casa nostra fino a quando trovasse casa. I figli di Rosa, Claudio e Roberto, erano due bambini bellissimi. Roberto, che ancora non conoscevamo perché era nato a Genova, era biondo con gli occhi azzurri, e Claudio castano scuro e gli occhi verdi. Erano molto vivaci e talora anche dispettosi. La sera quando, eravamo tutti seduti attorno alla “conca” (cioè al braciere) ogni adulto raccontava una storia o episodi accaduti anni prima, o fiabe, e i ragazzi ascoltavano a bocca aperta, e io più di loro. Molto brava a raccontare favole inventate da lei era Roberta. Una favpòa che si trattava di elefanti volanti e di tante avventure che avevano passate, era da lei raccontata così bene che ci sembrava di vedere e vivere ogni fatto. La cosa che più ci incuriosiva era che la raccontava a puntate, come certi romanzi. Facevamo un gran ridere, e quando Claudio e Roberto, facevano i dispetti, noi li ricattavamo dicendo: “Se fate i monelli, questa sera niente favola” e essi si calmavano.
Aspettavamo la sera con ansia e piacere e quando Rachele arrivava, era da vedere il loro viso che si trasformava; stavano con la bocca aperta e gli occhi spalancati fissando la zia con ansia di sapere, come andasse a finire la storia. Quando Rachele si fermava, essi cercavano di muoverla dicendo: “E dai, e dai zia” con un simpatico tono genovese. Poi a furia di ascoltare, o all’uno, o all’altro si chiudevano gli occhi dal sonno, e allora Rachele si fermava dicendo: “Adesso basta, è ora di andare a letto a dormire, riprenderemo domani sera”. E così, giorno dopo giorno assaporavo ciò che di bello o di brutto succedeva a casa mia.
La sera si doveva ad accendere le luci della scala: Era un compito antipatico perché, d’inverno, col freddo ci veniva difficile staccarci dal braciere, e poi, la cosa che più non sopportavo era di dover attraversare il corridoio e il sottoscala. Facevamo la conta per chi ci dovesse andare e, quando toccava a me, facevo quel tragitto di corsa e quando arrivavo nell’atrio, chiudevo subito il portone cercando di non guardare fuori, perché avevo paura. Poi, neanche a farlo apposta, il portone stentava a chiudersi perché era difettoso. Una volta chiuso l’ingresso, spenta la luce di sera e acceso quella della notte, scappavo di corsa: facevo l’ultima parte del tragitto con una tale tensione che mi irrigidivo tutta, talmente che mi veniva un forte dolore alle spalle.
(Continua al numero successivo)