(Continua la storia di Maria Luisa)
Da quel giorno ebbe inizio per me l’angoscia, la paura, la vergogna, la rabbia e il timore che le persone del palazzo mi giudicassero male. Il peggio era che quando veniva mia madre a trovarmi, mi permetteva appena di salutarla. Io stavo in silenzio davanti a loro ascoltando le bugie che la signora raccontava a mia madre dicendole “Rosa, diglielo tu di essere più brava, altrimenti dovrai riportartela a casa”. Mia madre rispondeva:
“Vossia deve avere un po’ di pazienza, ancora è piccola, vedrà che pian pianino Luisa sarà più brava.”. Ogni tanto mi rodevo dentro, perché mi dispiaceva tanto non potermi difendere come avrei voluto. Mi dispiaceva anche perché mia madre credeva più a lei che a me, e dovevo promettere ogni volta che mi sarei comportata come voleva la signora.
In cuor mio avrei voluto gridare invece: “Mamma non è vero quello che dice, è lei la bugiarda, non io – portami a casa”. Invece come una cagnolina bastonata, alla fine mi faceva salutare mia madre e mi mandava in cucina.
Con le lacrime agli occhi sentivo i passi di mia madre che scendeva le scale lentamente, come se fosse stanca.
Fra tutte le altre cose che non mi andavano c’era anche quella che dovevo rivolgermi alle persone dando del “Vossia” e salutare dicendo “Sebbenedica”. Invece loro al mio sebbenedica rispondevano “Addio”. Per indicare i miei genitori usavano l’espressione “donna” Rosa o “don” Saro.
Odiavo tutto ciò, ma dovevo ubbidire. Fra tante brutture mi dava dolcezza la presenza della figlia della nipote, che abitava accanto, e che era un po’ più piccola di me. Si chiamava Laura. Era una bella bambina, aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri, con me era brava e affettuosa. Spesso capiva che io avevo pianto a causa della zia, lei del balcone della cucina mi chiamava: “Luisa, affacciati, parla un po con me”. io salivo su una sediolina, mi affacciavo dall’unica finestrina che c’era nella cucina e le parlavo. Mi confortava tanto il fatto di piacere a Laura; bastava che mi chiedesse cosa era successo, perché avessi pianto, che mi dicesse che non voleva sentirmi piangere e che mi dava ragione, per provare un dolce sollievo e stare meglio.
A volte, quando non avevo da fare, giocavamo; lei dal balcone mi faceva vedere tanti bei giocattoli, io che non ne avevo li guardavo con piacere, ma purtroppo spesso la signora Anna mi chiamava e il gioco s’interrompeva.
L’altra cosa che mi piaceva, era che la signora Anna mi portava spesso al cinema, perché lei era una delle proprietarie di un cinema abbastanza noto a Catania. A me piaceva tanto andarci, specialmente quando proiettavano film di avventura, fiabe e storie d’amore. Capitava che un film lo vedessimo più di una volta, specialmente quando piaceva ai signori, mentre se a me non piaceva dovevo subirlo fino alla fine. Loro avevano anche la possibilità di andare gratis in alcune sale cinematografiche, dove però non mi portavano. Per andarci facevamo strada assieme, camminando loro davanti e io dietro: Sembravamo loro i padroni e io la cagnetta. Talvolta mi lasciavano al cinema e se ne andavano e nessuno mi mandava via perché ormai tutti gli impiegati mi conoscevano. Poi passava a prendermi di solito il signor Angelo, che mi avvertiva posandomi sulla spalla un dito, io ormai capivo, mi alzavo e lo seguivo senza protestare perché dovevo solo obbedire e subire l’interruzione dello spettacolo. Questo proprio non lo sopportavo e mi rodeva dentro. Ma la situazione era sempre la stessa,: Subire e obbedire.
Un giorno la signora Anna trovò la lancetta della radio rotta: cominciò a gridare chiedendo chi fosse stato a romperla. Io dalla cucina sentii la voce tremolante del signor Angelo che diceva: “Io non sono stato!” E sentii i passi svelti della signora Anna che venivano verso di me in cucina; io tremavo dalla paura, perché già sapevo da altri casi precedenti come sarebbe andata a finire. Arrivò in cucina come un fulmine, mentre io con gli occhi sbarrati, stavo immobile e atterrita: “Sei stata tu vero!” “No; non sono stata io, e, ancora con la voce tremante, lei lo sa che io non uso mai la radio, semmai la spolvero solamente”. Azzardai solo a dire: “E’ suo marito che la usa sempre.” Povera me! Non l’avessi mai detto!
Si sentivano rumori di sedie che provenivano dal salotto. Era suo marito che si preparava a difendersi. Per la prima volta scoprii che io gli servivo da scudo. La signora Anna con furia mi scarica due bei ceffoni, ritorna in salotto gridando. ”Luisa ha detto che sei stato tu”. Lui infuriatosi ancora di più, prese una sedia e venendo verso la cucina diceva in dialetto: “Unnè sta rugnosa, gli rompo addosso questa sedia, come si permette di dire che sono stato io!!!”
A quel punto non dissi più niente, ma piangevo disperatamente, non tanto per le botte che mi aveva dato la signora o per paura del resto che mi avrebbe dato, ma soprattutto perché venivo trattata da bugiarda. Questo feriva molto la mia sensibilità.
Il termine “rugnosa” usato dal signor Angelo mi feriva perché noi della famiglia Cipolla, eravamo poveri, ma mai nessuno mi aveva detto quella parola.
Al ricordo di quell’incidente mi venne un nodo alla gola e dovetti interrompere il mio racconto. Quando mi ripresi la dottoressa mi chiese se in famiglia mi avevano fatto pesare la morte di Graziella. Le dissi che non ricordavo niente riguardo alla disgrazia e che non avevo mai sentito accuse contro di me, la dottoressa mi spiegò che io stessa, inconsciamente, mi ero inculcato un senso di colpa e per questa ragione sopportavo tutte le angherie e frustrazioni interpretando come una reazione dei miei genitori il loro negarmi amore e calore per castigarmi.
Mi emozionarono le parole della dottoressa che poi mi disse: “Basta così per questa mattina, ci rivediamo domani alla stessa ora”. Mi congedò con un bel sorriso e una stretta di mano molto calorosa.
Ritornai come al solito in camera. Però, siccome era una giornata molto grigia, piovosa e nebbiosa, ed era mancata la luce non potei salire con l’ascensore e dovetti fare le scale a piedi. Questo sforzo mi provocò una crisi di asma. Gli infermieri chiamarono il dottore che mi praticò una puntura e mi diede delle gocce. Dopo un po’ mi sentii meglio però non mangiai niente. Finalmente quel giorno passò. Il giorno dopo era di nuovo chiaro, c’era un bel sole e alcuni pazienti si prendevano la prima tintarella. Io andai al solito colloquio che per me era diventato più importante.
Al solito la dottoressa volle sapere come avevo trascorso il resto della giornata e poi mi chiese di riprendere il mio racconto.
Ricordai che venne il primo Natale dell’anno in cui fui portata signora Anna. Lo trascorsi a casa mia felice di quel ritorno, anche se breve. Vedevo i preparativi per la grande festa che, anche se poveri, si facevano.
La sera di Natale vennero Maria con Nino ed erano contenti di rivedermi e questo a me fece molto piacere. Si giocava a sette e mezzo, io mi divertivo, però notavo che in noi c’era qualcosa che non andava, come se tra loro e me ci fosse una barriera, solo che non capivo ancora la ragione. Comunque assaporavo quei giorni con gioia, e raccontavo tutto di me, bene e male, dicendo che non stavo bene dalla “signora”, che mi dava botte e mi faceva rimproveri continui. I miei mi risponde-vano: “Forse è per insegnarti e poi mangi anche bene”. “Non è vero, che mangio bene mi danno il latte con l’acqua e poco zucchero. Io la vedo quando la signora, diluisce il latte in scatola, (c’era solo il latte in scatola) e mette più acqua che latte!” Ma loro non capivano o non mi credevano, o meglio, forse non mi sapevo spiegare abbastanza bene. Così mi accorsi che non prendevano sul serio quello che io raccontavo. Quei pochi giorni li trascorsi giocando con l’unica bambolina che avevo e con le pentoline che mi avevano fatto trovare.
(Continua al numero successivo)