(Continua la storia di Maria Luisa)
“I morti,” prima che andassi ad abitare con la signora, assieme alla bambolina e alle pentoline avevo anche un fornellino, un modellino molto piccolo di quelli che si usavano una volta in terra cotta.
Ricordo che quando mi svegliai in quella famosa mattina dei morti, la gioia che provai nel trovare quei giocattoli sul tavolo. Non potete immaginare quando mi piacque quel fornellino. Quei giorni passarono presto e mi ritrovai dalla signora Anna. Chiesi a mia madre se potevo portarmi la bambolina e lei mi disse di sì. Era così bellina, aveva i capelli biondi come l’oro, il vestitino rosa, corto, e le scarpette bianche.
Tornata dalla signora ripresi il lavoro di prima, facendo le pulizie, di casa e man mano che il tempo passava facevo dei progressi, tanto che a volte la signora mi lodava e diceva: “Brava, ogni giorno diventi più brava”. Io, quando lei e suo marito erano contenti di me mi rincuoravo e allora cercavo di fare ancora meglio. Però ero sempre una bambina in tenera età, e talvolta trascuravo di fare le faccende e mi mettevo a giocare con la bambolina, oppure mi affacciavo dalla finestra della cucina e giocavo con Laura. Quando la signora se ne accorgeva, raccomandava a sua nipote di non farmi intrattenere da Laura perché altrimenti non avrei fatto in tempo a sbrigare i lavori di casa.
Il gioco non era fatto per me: Potevo giocare solo a tempo perduto. A volte sentivo giocare Laura con un bambino che abitava nella casa accanto, si chiamava Aldo, e io avrei voluto essere con loro e, non potendo, mi chiudevo in me stessa.
Pian piano diventavo più seria, sempre più seria, più timida e insicura, non ridevo mai perché loro erano grandi e non avevano figli, quindi non capivano le necessità di una bambina.
Ricordo una sera che pioveva forte, e c’erano forti tuoni e fulmini. Quando ero a casa mia avevo sempre paura, ma mai come quella sera. Andammo a letto – io dormivo in un angolo dell’ingresso riparata da una tenda – alla mia sinistra avevo il salotto con il balcone, alla mia destra la loro camera. Immaginate come mi sentivo io vedendo l’ingresso illuminarsi al massimo quando scoccavano i lampi e i tuoni che aumentavano la paura! Mi rannicchiavo sotto le coperte e piangevo, piangevo tanto e pregavo Gesù, che avevo in un grandissimo Crocifisso appeso al muro. All’inizio avevo timore a guardarlo, ma poi presi confidenza e spesso lo guardavo e gli parlavo, aspettando anche che rispondesse. Come dicevo, quella notte mi affidai a Gesù e piangendo mi addormentai. Sognai di avere un forte mal di pancia, mi contorcevo nel sonno e mi lamentavo. Ad un tratto mi svegliai costatando veramente di avere il mal di pancia. Volevo andare in bagno, ma avevo tanta paura, per via dei tuoni e dei fulmini e poi il timore di dover attraversare la camera dei “padroni”, il corridoio e la cucina attaccati al bagno con tutte le pareti in vetro, potete immaginare come erano illuminate dai fulmini. Io al solo pensarci rimasi impietrita nel mio letto. Però restava il fatto che dovevo liberarmi da quel mal di pancia, così mi venne la felice idea di fare la cacchina in un angolo del letto. Dopo mi rannicchiai di nuovo e mi addormentai.
Il mattino seguente mi svegliai ancora nella stessa posizione, e quando mi venne in mrnte quel che era successo durante la notte dissi tra me e me: -
“E’ stato un sogno? Lo sperai tanto ma ahime! Era vero. Avevo fatto la cacca ne letto. Rimasi immobile. Sentivo la signora che mi chiamava: “Luisa svegliati, è tardi”, io non rispondevo. “Luisa alzati!” Si avvicinò al mio letto, io incominciai a tremare dalla paura, lei si accorge di quello che avevo fatto, si mise a urlare e darmi botte a non finire. Mi fece saltare dal letto come un cane, mentre io piangendo cercavo di dirle della mia paura del temporale. Tutto inutile, non mi ascoltava
nemmeno. Fece sapere come al solito, tutto quello che mi era successo, a tutti quanti i vicini affacciati all’interno del cortile. Raccontò tutto con me presente; ridotta uno straccio dal pianto, dalle botte, dalla notte che avevo trascorso, da tanta vergogna.
Adesso che sono grande e mamma, credo che quella gente, soprattutto i suoi nipoti e le sue sorelle non pensassero male di me, ma compativano lei, perché sapevano quanto fosse dura, severa e per me anche cattiva.
Aveva una cosa solo di buono, che passata la “bufera” cercava di farsi ben volere chiamandomi: “Luisedda” e dicendomi: “Sai, io in fondo ti voglio bene ma tu no, perché???” Io la guardavo in silenzio e non le rispondevo, e lei “Mi prometti che non farai più questo e quell’altro?”
Così diventavo sempre più chiusa, non guardavo bene in faccia le persone, perché mi vergognavo, pensavo che le persone mi scansassero, e me ne stavo in disparte, non ridevo quasi mai, e quando mi chiedeva perché non ridessi, aprivo la bocca come una stupida, tentando di ridere, ma era tutta finta.
Al primo piano dell’altro edificio ci abitava un’altra sua nipote, sposata da poco. Un giorno la signora mi disse: Luisa, vieni con me da mia nipote Lina che le è nata una bambina. Per la prima volta ho conosciuto da vicino quest’altra nipote, suo marito e sua madre, cioè la sorella più piccola della signora Anna. Ricordo che mi fecero subito simpatia. Mi accolsero bene. Mamma e figlia assomigliavano un po’ alla signora Anna, però erano più belle e molto diverse di carattere, molto più buone e più affettuose.
Sua sorella Teresa mi prese per mano e mi disse: “Vieni, ti faccio vedere la mia bella nipotina”. Era bella davvero, sembrava una principessina in quella culla di vimini tutta rivestita di pizzi e merletti. Guardavo tutto intorno meravigliata, era tutto bello, c’era un’aria di tranquillità e tutto era lieto, sia la casa che le persone che la abitavano. La signora Lina era una bellezza in quel letto tutto rosa.
Rimasi colpita da suo marito, che quando entrò in camera si avvicinò al letto e si adagiò accanto a sua moglie e la baciò. Io ero accanto alla culla e li ammiravo con simpatia. Mi piacque anche il nome di suo marito: Pensate, il caso volle che si chiamasse Michele.
Prima ancora ero stata anche dalla nipote che abitava accanto a noi, dalla mamma di Laura. Bella anche lei; si chiamava Paola ed era brava anche se più seria di sua sorella. Notavo un comportamento più umano, nei miei confronti, rispetto alla signora Anna.
Col passare del tempo li conobbi ancora meglio e scoprii che erano persone squisite, dei veri signori. Però tutta quella differenza sociale, quelle cose belle che io non avevo mai visto mi turbavano, mi facevano sentire più misera, e sentivo che c’era un grande distacco fra me e loro.
La signora Anna faceva del tutto per farmelo notare ancora di più e mi diceva: “Stai attenta comportati bene con i miei nipoti e le mie sorelle, non fare al tuo solito, devi essere ubbidiente, pulita, non devi mentire, educata e distinte”. Tutte queste parole mi facevano sentire una formichina al loro confronto e quel “Vossia” con cui io dovevo rivolgermi a loro “Vossia” e “Subbenedica” mentre il loro saluto era “Addio”, io non lo potevo mandare giù, era più forte di me, non lo sopportavo. Dovevo parlare così, quindi, non solo alla signora Anna e a suo marito, ma a tutti i parenti.
Il tempo passava e passava inesorabile.
(Continua al numero successivo)