Quella notte di Natale, dopo dieci anni di coma
Max, la terapia della certezza e la speranza che non “stacca la spina”
maggio 17, 2012 Caterina Giojelli
Una mamma che crede contro ogni evidenza e un figlio che si risveglia dopo dieci anni di coma. Una storia impossibile per medici e preti ma non per la famiglia Tresoldi. Che porterà il suo miracolo davanti al Papa a Milano.
Tutta la vita preparata per lui non sarebbe passata per quel piccolo sondino. Ezia, la sua mamma, ne era certa mentre staccava Max dalle macchine per portarselo a casa, «Lo hai già salvato una volta, se vuoi te lo prendi. Altrimenti ce lo lasci qui e ci pensiamo noi a riportarlo in vita come si deve». Fare una promessa a Dio non è come farla a un uomo: “Che farebbe se Max fosse suo figlio?”, avevo chiesto al primario. “Lo porterei a casa. Ma lei non può, non è un medico”. “Non sono un medico ma ho tanti soldi per pagarne uno”, avevo mentito, ottenendo il nullaosta per salvare Max dall’ospedale». Quando fai una promessa a Dio corri il rischio che tutto di te, il sudore che imperla sempre la fronte, le braccia protese verso un figlio allettato, racconti una verità che fa a cazzotti con quella portata dai grandi dottori, e a volte perfino con la fede dei parroci. Questa è la storia di una mamma che ha corso il rischio o – come dice lei – si è «presa la responsabilità» di sperare nel miracolo e che dopo dieci anni di calvario si è sentita abbracciare da suo figlio. Un ragazzo che i medici avevano chiamato “tronco morto” e si era risvegliato uomo dopo dieci anni di coma. E che il 2 giugno raggiungerà Milano per incontrare il Papa e partecipare, con la sua storia di grazia, all’Incontro mondiale delle famiglie. Non è iniziato tutto il 15 agosto 1991, il giorno in cui Massimiliano, si schiantò in macchina alle sette del mattino. Tutto, per Lucrezia, anzi Ezia, come la chiamano gli amici, ha inizio nel 1969 a Carugate (Mi), quando, ventenne, sposa Ernesto Tresoldi, «qualche mese dopo ero già incinta di Barbara. Ernesto amava il suo lavoro e voleva farsi strada, decidemmo che sarei stata a casa a occuparmi dei figli. Non ci spaventava l’affitto né i sacrifici. Un anno dopo Barbara arrivò Massimiliano. E nove anni dopo Gabriele. Imparai a cucire i vestiti, fare a maglia e qualsiasi altra cosa servisse alla famiglia. Mi sentivo grata e orgogliosa per non aver perso nemmeno un giorno della loro vita, e loro crescevano felici e positivi. Avevo una famiglia perfetta e toccavo il cielo con un dito». Poi, un’afosa mattina di ferragosto di 21 anni fa, cambia la storia della famiglia Tresoldi. Una telefonata dall’ospedale di Melegnano: Max ha fatto un incidente ed è ricoverato in condizioni gravissime. Ezia non sapeva neppure fosse vicino a casa, non sapeva che gli amici con cui era partito per la Puglia due settimane prima avevano deciso di passare gli ultimi giorni di vacanza sulla riviera adriatica, né che Max li aveva accompagnati ma poi aveva deciso di tornare a Carugate. Lei sapeva solo che era partito per le vacanze, che a settembre avrebbe preso la maturità e si sarebbe aperto uno studietto per far fruttare la scuola di grafica e il lavoro di fotocompositore che gli riusciva tanto bene. Invece eccolo lì, immobile come un tronco, il cervelletto compromesso irreversibilmente, i medici che dicono che non c’è niente da fare: non parla, non sente. «Max si era rotto tutto nell’incidente. Ma era vivo». Per otto lunghi mesi Ezia lotta con i medici di due ospedali diversi che non sono disposti a sperare contro l’evidenza scientifica: Max non risponde a niente, mantenerlo in vita è uno spreco di risorse. Una sera Ezia lo salva per miracolo, ha le unghie blu e un arresto respiratorio in corso, ma nessuno si è accorto di niente. Un’altra mattina arriva appena in tempo per liberarlo dal sondino che si è accartocciato in gola e lo sta soffocando. «Dovevo portarlo via. Mentii, millantando di avere risorse adatte per garantirgli un decorso pari a quello ospedaliero. Lo portai via con 40 di febbre, piaghe da decubito, accartocciato come una Pietà».La miracolosa notte di Natale
Per dieci anni Ezia e la sua famiglia vivono, incarnano la speranza. Le danno braccia e gambe, offrendo le proprie alla guarigione di Max. Assumendosi ogni giorno la responsabilità di ogni singola scelta medica, parlando con lui sempre perché è lì, ed è vivo e sono certi che veda e senta tutto. Due anni dopo l’incidente il corpo di Max è irriconoscibile, sembra dormire sereno. Una fisiatra azzarda che forse forse i Tresoldi potranno raccogliere i frutti di tanto amore. Intanto, insieme a quella famiglia che spera contro ogni evidenza, si va radunando un piccolo popolo di amici, senza titoli medici a offrire quello che hanno, una mano per la fisioterapia, la compagnia 24 ore su 24 a Max, pasti caldi per la famiglia. «Per anni sembrò di “passarci la Croce”, uno ad uno, aiutandoci ad alzarci e tirarci su quando qualcuno di noi crollava. Un giorno presi Ernesto per i capelli: non poteva crollare, prendere dei farmaci, l’unica medicina era il bene dei nostri figli, che avevamo voluto, amato e che dovevamo custodire». È “scientificamente impossibile”, ripete la fisiatra ogni volta che i Tresoldi si dicono certi di aver visto Max sorridere, «ma a me la scienza non interessava da tempo, i dottori non credevano e a me non interessava chi non credeva». Al coro degli scettici si uniscono però anche degli amici preti: Ezia, stai rovinando la tua famiglia, devi fartene una ragione. E lei, caparbia, «mi sono assunta la responsabilità di vivere con questa speranza in Dio e nessuno, neanche voi potete togliermela». Ma nel 1999 Ezia perde il papà e di lì a poco anche sua mamma, due pilastri della sua incrollabile fede. La sera di Natale dell’anno 2000 è la più difficile di tutta la via Crucis dei Tresoldi. Ezia riesce appena a rimboccare le coperte al figlio e a mormorare: «Max io sono crollata. Questa sera se vuoi pregare prega per conto tuo». Ed ecco. Il miracolo irrompe. Dopo 10 anni quel ragazzo diventato uomo tra le sponde di un letto alza il braccio e fa il segno della croce. Una manciata di secondi, Max è tornato alla vita e subito abbraccia mamma Ezia. «La mia mamma ha sudato»: è la frase che da quel giorno Max ripete a tutti. «Dovete credere a me e alla mia mamma che ha sudato», dice puntano il dito contro i preti che non le avevano creduto. Dapprima con piccolissimi gesti, poi, ricordandosi l’alfabeto muto imparato alle elementari. «Io sono sempre stato qui, vi ascoltavo e vedevo tutto», la verità è ancora più insopportabile a chi non l’ha creduto cosciente: snocciolando ricordi, frasi, episodi Max ricorda molti fatti accaduti nel corso di quei dieci lunghi anni. «Siamo stati peggio di san Tommaso, abbiamo messo il dito nella piaga e non abbiamo creduto», confessano i preti. «Non è possibile, lei parla di un ragazzo morto», le rispondono i medici che dieci anni prima ebbero in cura Max quando Ezia chiamò per dire che si era svegliato. «Quando richiamai per dire che Max aveva iniziato anche a parlare riconobbero che avrebbero potuto prendere il Nobel al mio posto: in Italia non ci sono casi di risveglio dopo dieci anni. Era il 2009, l’anno di Eluana Englaro. Noi dopo 19 anni sentivamo nuovamente la voce di Max e volevamo che potessero sentirla tutti». Fare a cazzotti con i manuali.
Ma la speranza è una responsabilità che sembra avere un peso insopportabile per la famiglia oggi. Più facile “staccare la spina”, e non sono solo le cronache dell’anno 2009 a ricordarlo. «Quando tutti i dottori e le istituzioni non si vogliono fare carico della responsabilità di credere nella vita, chi se non una madre può farlo? E come potrebbe farlo da sola? La famiglia arriva dove tutti si tirano indietro. Porta la speranza e la speranza è un atto di responsabilità verso la vita dei propri figli. Ecco, io credo che la responsabilità sia un esercizio a cui la famiglia oggi sia poco allenata». Per questo dopo essere stata raccontata da Fabio Cavallari in Vivi – Storie di uomini e donne più forti della malattia (Lindau, 16 euro) la storia di Max è tornata in libreria a far cazzotti con i manuali sulla famiglia e l’amore perfetto con E adesso vado al Max! Massimiliano Tresoldi. 10 anni di «coma» e ritorno, scritto da mamma Lucrezia Povia Tresoldi insieme a Lucia Bellaspiga e Pino Ciociola (Àncora, 15 euro). Un libro che Max il 7 marzo ha consegnato con dedica al Santo Padre incontrandolo a Roma. «La strada per Max è ancora lunga, ma torneremo dal Papa a Milano. Per fare la nostra parte all’interno di un popolo che rende possibile che si compia ogni giorno il miracolo».
L’articolo è uscito sul numero 20/2012 di Tempi.