Lavoro, gratuità, dono A cura di Antonella
In questo numero del giornalino, propongo alla nostra riflessione una parte della relazione tenuta dal prof Luigini Bruni il 30 maggio 2012 durante l’Incontro mondiale delle famiglie, dal titolo “ La famiglia, il lavoro e la festa nel mondo contemporaneo”. Il testo è piuttosto ampio: riporterò qui solo le parti che più possono interessare chi legge perché più attinenti alla vita delle famiglie. Chi vuole conoscerlo per intero, lo troverà, come tutti i testi delle relazioni pronunciate nell’Incontro di Milano, sul sito www.familia.va.
L’autore osserva anzitutto che “La famiglia è sempre stata, ed è, il principale luogo sia del lavoro che della festa”: in ogni civiltà umana “i tempi e i momenti della festa e quelli del lavoro sono stati molto intrecciati tra di loro”. Oggi viviamo “in una cultura dei consumi e della finanza che non capendo più il lavoro non riesce a capire e a vivere neanche la festa”; per questo motivo, la famiglia, il lavoro e la festa devono essere prese in considerazione come tre facce di un unico tema, “senza commettere l’errore di assegnare a ciascuno di questi tre termini dei luoghi e degli ambiti separati e non comunicanti tra di loro”.
E’ per questo che la parte centrale della relazione del prof. Bruni si intitola:
La famiglia scuola di gratuità, e quindi di lavoro e di festa
…”Per poter dire qualcosa di meno ovvio, rispetto alle tante che sentiamo, sul lavoro e la famiglia nel mondo contemporaneo, alla luce dell’umanesimo cristiano e della Dottrina sociale della chiesa, occorre partire come premessa e base di tutto il nostro ragionamento dal grande tema della gratuità e del dono, che è ciò che accumuna, e vedremo perché, la famiglia, il lavoro e la festa.
Chiediamoci anzitutto: “che cos’è veramente la gratuità”?
- La gratuità è qualcosa di serio. Questa parola “è oggi troppo spesso associata al gratis, al gadget, allo sconto”. In realtà, la gratuità è qualcosa di molto più serio, come ci ha spiegato con estrema chiarezza anche la Caritas in Veritate, che rivendica alla gratuità anche lo statuto di principio economico: è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, alle cose non per usarli utilitaristicamente a nostro vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità, rispettarli e servirli”. … “Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione esterni. Ecco perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità, perché la gratuità ha bisogno non di un’etica utilitaristica fondata sugli incentivi e sulle sanzioni, ma di un’etica delle virtù.”
… “La risposta alla ipotetica domanda: “perché questo manufatto o questa lezione vanno fatti bene?” è, se prendiamo sul serio l’etica delle virtù, tutta interna, o intrinseca, a quel lavoro, a quella determinata comunità o pratica professionale. La pur necessaria e molto importante ricompensa, monetaria o di altro tipo, che si riceve in contraccambio di quella opera, non è la motivazione del lavoro ben fatto, ma solo una dimensione, certamente importante e co-essenziale, che si pone però su di un altro piano: è, in un certo senso, un atto di reciprocità, un premio o un riconoscimento e una riconoscenza che quel lavoro è stato fatto bene, e non il “perché” del lavoro ben fatto. Per lavorare può bastare la buona motivazione del salario; ma per il lavoro ben fatto occorre anche la gratuità. Le città europee, le loro cattedrali, ma anche i loro commerci e le loro fiere, sono il frutto di secoli di questa etica dei mestieri e delle professioni, profondamente intrecciata con il cristianesimo.”
Invece, nella cultura economica capitalistica dominante, il denaro è diventato il principale o unico “perché” del lavorare, la motivazione dell’impegno nel lavoro, della sua qualità e quantità. In questo modo si “sta producendo il triste risultato di riavvicinare sempre più il lavoro umano alla servitù se non alla schiavitù antica, perché chi paga non compra solo le prestazioni, ma anche le motivazioni delle persone e quindi anche la loro libertà !” Il lavoratore “quando lavora bene, prima di obbedire a incentivi e manager obbedisce a se stesso, perché se e quando si lavora male per otto ore al giorno per quarant’anni, è l’intera vita, personale, familiare e sociale, che non funziona. Lavorando diciamo a noi stessi e agli altri non solo che cosa facciamo, ma anche chi siamo; e se lavoriamo male diciamo male chi siamo, a noi e agli altri, perché lavorando male viviamo male, anche se questo lavorare male dipende dal fatto che lavoriamo nel posto sbagliato, all’interno di rapporti sbagliati, senza poter esprimere la nostra vocazione, che è anche vocazione lavorativa: far in modo che ogni persona trovi la sua vocazione lavorativa è un dovere morale etico di ogni comunità educativa (dalla famiglia alla scuola alla politica), perché ne va di mezzo la nostra felicità, una felicità che non può cominciare solo quando torniamo a casa la sera o nel week-end, perché se non siamo felici quando e mentre lavoriamo, non possiamo esserlo veramente e pienamente neanche quando smettiamo di lavorare. Non è sempre possibile, per tutti e per tutta la vita, fare il lavoro che sentiamo come nostra vocazione: ma nessuno può impedirci di vivere ogni lavoro come agape, come relazione e come servizio, e così redimere e trasformare in fioritura umana ogni lavoro.
Il lavoro è troppo importante per non far di tutto per cercare di starci bene, e possibilmente felicemente, che non significa assenza di fatica e di dolore, ma presenza di senso e di sviluppo di un progetto di vita”
- L’arte della gratuità si apprende in famiglia Il prof. Bruni sottolinea a questo punto che la famiglia “deve fare molta attenzione a non importare dentro casa la logica che oggi vige fuori, magari in totale buona fede. Guai, ad esempio, ad usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi (ma con tutti), va usato molto poco, e se usato deve essere un premio o riconoscimento, e mai usato come prezzo e come incentivo. Se, infatti, un ragazzo inizia ad essere pagato (5 euro) dai genitori per sparecchiare a tavola o togliere l’erba in giardino, il primo effetto che si produce è che quel ragazzo inizia a pensare che quel suo atto (al quale prima non aveva mai attribuito un valore monetario, perché si muoveva su un altro registro), vale 5 euro, che è molto poco”… “In secondo luogo, in breve tempo c’è un effetto di contagio (“spillover”): quel ragazzo inizierà a chiedere denaro anche per gli altri lavori contigui (riassettare il letto …). E se, infine, un giorno questo incentivo monetario venisse tolto, tutti i lavori verrebbero con ogni probabilità interrotti: quando in un rapporto si introduce il denaro non si torna più indietro, poiché il pagamento ha il forte potere di cambiare la natura di una relazione.” Mentre, al contrario, … “uno dei compiti tipici della famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto semplicemente perché … le cose vanno fatte bene, perché esiste nelle cose una vocazione che va rispettata in sé, anche quando nessuno mi vede, mi applaude, mi punisce e mi premia”
Quindi, “dobbiamo tener ben presente che la gratuità, la charis, come ci insegna San Francesco, non è un prezzo zero, ma un “prezzo infinito”: ‘quando annunciate il vangelo non chiedete denaro’, ammoniva San Francesco, mercante e figlio di mercanti, poiché, aggiungeva ‘se dovessero pagarvi ci sarebbe bisogno di tutto il tesoro dell’universo’. Quindi la charis non si paga perché costerebbe troppo, perché è impagabile, e non perché non costa niente.”
C’è ancora un altro aspetto da sottolineare: “l’attuale cultura economica non capisce il lavoro che si svolge all’interno delle mura domestiche, lavoro prevalentemente (sebbene oggi non esclusivamente) femminile. Inoltre, la cultura che legge la gratuità come “prezzo zero” o come la cultura del gratis, ad esempio, porta anche a teorizzare, e poi ad agire di conseguenza, che i lavori di cura e di assistenza debbono essere pagati di meno, proprio per salvaguardare la loro natura di gratuità (cioè di prezzo zero). È questo un grave errore economico e civile, che porta, tra l’altro, a giustificare stipendi più bassi per molti lavori educativi e di cura (anche qui a maggioranza femminile).”
- Il lavoro è anche dono. In conseguenza di quanto detto sopra, si può affermare che “ oggi una buona battaglia di civiltà è quella che distingue la gratuità dal gratis, che non contrappone contratto a dono” Dobbiamo cioè essere consapevoli che “il lavoro inizia veramente quando andiamo oltre la lettera del contratto e mettiamo tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un bullone, o fare una lezione in aula. Si lavora veramente quando al Sig. Rossi si aggiunge Mario”, Il che, in ultima analisi significa che “il lavoro è veramente tale e porta anche frutti di efficienza ed efficacia, quando esprime un’eccedenza rispetto al contratto e al dovuto, quando cioè è (anche) dono”
…”L’arte più difficile che i dirigenti di imprese e organizzazioni debbono imparare e coltivare è proprio l’arte di trovare meccanismi che sappiamo riconoscere, almeno in parte, il dono presente nel lavoro, in ogni lavoro”.
- La vita non è solo lavoro. Attenzione però: noi lavoratori dobbiamo chiedere molto, moltissimo, al lavoro, ma non quello che non può e non deve dare, perché il lavoro non potrà mai esaurire, da solo, la nostra vocazione all’eccedenza, alla reciprocità, che è sempre più grande di qualsiasi professione o mestiere. Il lavoro ha le sue stagioni: conosce una data di inizio e una di fine, conosce i tempi della malattia e della fragilità, mentre il nostro bisogno di reciprocità ci accompagna e cresce durante l’intera vita, precede e sopravvive al lavoro. E senza saper segnare e riconoscere il limite al lavoro nell’economia della nostra vita e nelle nostre famiglie, il lavoro sarà o servo o padrone, mai “fratello lavoro”.
Si lavora veramente quando si riconosce in se stessi e negli altri un’eccedenza del lavoro rispetto alla lettera del contratto; e si vive veramente quando si riconosce un’eccedenza della vita rispetto al lavoro.”
Nel prossimo numero del giornalino riporterò l’ultima parte della relazione del prof. Bruni, nella quale si affronta l’altro aspetto del tema proposto, quello relativo alla festa e ai suoi rapporti con la famiglia e con il lavoro. Nel frattempo, sarebbe bello se qualcuno volesse farci partecipi di osservazioni o riflessioni personali sui temi affrontati dal prof. Bruni.