Sliding dreams 3
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Fra poco arriverà il temporale, sbrigati! Disse tuo padre, con voce spazientita. Stavamo partendo e mi metteva fretta. Come sempre.
Sempre in ritardo io, prima di lasciare casa e i ragazzi. Mille cose da sistemare, mille raccomandazioni da fare. Ho fatto la spesa per una settimana, ho cucinato per tre giorni, ho sistemato tutto in frigo. Mi raccomando, niente sprechi e niente caos in casa o baldorie varie con gli amici, così mi affannavo per casa all’ultimo minuto, questo benedetto tempo mai abbastanza,-dico io, vai perdendo tempo! dice lui. Tu invece, – angoscia d’amore, la chiami -Mamma vai tranquilla, dai, siamo cresciuti, non c’è più bisogno di raccomandazioni scontate. Si, va be', ma sono più serena se ve le ripeto.
Vi telefonerò appena arrivati.
Mio marito invece, sempre pronto. Vestito di tutto punto: ti aspetto in macchina dice ogni volta indispettendomi, ignorando, volutamente o non, la mia ansia.
Sempre così. La fretta, l’incomprensione e il breve litigio, io con le mie scuse, lui con la sua precisione. Questa volta però, non l’avrei fatto aspettare, né avrei dato adito a qualsiasi discussione. Meglio di tutto, il silenzio!
Partivamo per Roma e portavo con me poche cose per un breve soggiorno presso mia figlia; il tempo di sbrigare alcune cose burocratiche, non più rimandabili.
Salii in macchina, sistemai la borsa sul sedile posteriore, mi sedetti accanto a lui, e mi disposi ad affrontare quel viaggio in silenzio. Raccolta nei miei pensieri.
Mentre allacciavo la cintura, diedi un’occhiata rapida, quasi di striscio, a mio marito, ma quel tanto mi bastò per cogliere tutti i segni di quella pena che si portava dentro. Aveva i capelli arruffati, la barba incolta, i pantaloni stropicciati, le scarpe con tracce di fango sui tacchi. Non si curava più come un tempo, quando si nutriva del calore della famiglia che cresceva serena e prometteva di sognare per il suo futuro. Io d’altronde, preferivo ignorare le sue esigenze e sempre di più gli negavo cura e affetto. Notai più profonde le rughe sulla fronte, come un marchio a fuoco, e le occhiaie, dietro le lenti spesse da miope, flaccide e cadenti, come vecchie cornici scollate, di occhi che drenano sofferenza guardando il buio della notte. Immaginai lo sguardo spento, deluso, arreso.
I miei sogni sono tramontati all’alba, dice spesso con amarezza quando le sue aspirazioni di padre accorto e premuroso, si schiantano contro realtà filiali deludenti, a volte inaccettabili. Osservai le labbra. Erano slargate in un sorriso appena abbozzato, che si dimenava tra la rabbia stizzosa e l’angoscia sconvolgente. Tutta la sua persona urlava sofferenza! Mi venne in mente “L’urlo” di Munch e quel gelo d’angoscia universale, tornò ancora ad inondarmi tutta, come quel giorno in cui il mio grido varcò la soglia del cielo e il mio tempo, appeso all’attimo che ha bucato il cuore, verticalizzò il suo ritmo in precipizi d'apnea.
Scapigliata, con i pochi ciuffi di capelli raccolti in una crocchia sbadata e malferma, mi presentavo sciatta e disordinata e a figurarmi così, provavo quasi, un misto di compiacimento e disprezzo per la mia persona.
Da quando ci era caduto addosso il macigno, avevo completamente perso ogni interesse e cura di me. Avevo invece preso l’abitudine di parlare tanto, con tutti, di tutto. Parlavo di me, di noi, di te, della tua poesia, della tua complicità coi fratelli, della tua generosità, della tua sbadataggine, delle tue battute fresche e immediate che tornano sempre alla mente come girandole infocate.
Ora però, non avevo alcuna voglia di parlare con tuo padre, volevo starmene in silenzio a pensare cose che non volevo condividere. D’altra parte, da qualche tempo, noi due evitavamo lo sguardo, e sempre più raro era lo scambio di idee. Si parlava solo quando era indispensabile.
Ognuno si portava addosso il proprio carico di dolore e intanto, un sottile, trasparente muro di silenzio si alzava sempre di più a dividerci, anche quando eravamo molto vicini. Perfino nell’abbraccio convulso, si avvertiva il gelo di quella lastra invisibile tra noi. Quasi che l’uno volesse tenere lontano l’altro dalla propria sofferenza, da questa pena che ti stringe dentro nel tuo vuoto fino a soffocarti. Isolamento, che non è premura per evitare il contagio, è gelosia di appartenenza, è isolamento in un tragico godimento.
É il grande dolore!
Succede di tutto quando esso irrompe con violenza devastante nella tua esistenza e la travolge; rompe gli equilibri affettivi, scende come mannaia a spezzare le coordinate esistenziali e, come punta di lancia, penetra nel tuo sangue iniettando mutazioni irreversibili in tutto il tuo essere, niente sarà più come prima. Altri cicli vitali vivranno il tuo tempo; il tuo universo, spodestato da altre realtà di cui paradossalmente diventi geloso, ed è così, gelosi della propria sofferenza; la si tiene stretta, stretta, come altro respiro di vita che non puoi né vuoi condividere con nessuno. L’abbracci forte, come potresti fare altrimenti? E' l’altra tua pelle invisibile, che respira con te, si nutre di te, ti dà vita, mentre te la toglie.
È tua e di nessun altro!
Tutt’al più, nei momenti di frenetico e passionale squilibrio, puoi raccontarla con la teatralità di una storia struggente, che affascina con le sue fibre vibranti, con quelle note alte e acute che salgono dal profondo, come marea montante a inondare tutto il tuo spazio vitale. Vortici che ti avvolgono in un buio che sprofonda.
A volte però - allora tutto è così bello - succede che le note si fanno dolci, diventano sussurri cristallini, che rinvangano ricordi, spargono profumi, musicano pace; allora quel acuto soffocato diventa melodia che tu raccogli nel cavo della mano, la soffi come alito sul vetro, la contempli nella sua opacità riflessa, poi lentamente la riscrivi con la punta delle dita, fino a quando non diventa goccia, goccia che rientra nelle tue carni, a nutrirli e, tarlo insidioso, a rosicchiarti le ossa...l'anima.
Succede un po’ come l’amore della vittima per il suo carnefice.
Voglio viverlo questo dolore, voglio viverlo in tutte le sue sfaccettature, è solo mio, mi appartiene in tutta la sua intensità, è il mio circolo vitale, è il solo punto fermo della mia vita rovesciata. È la piantina che va curata, perché ha sete di vita e la sua sete, è la mia vita.
È il tempo fuggito, il tempo sprecato, il sorriso mancato, il rimprovero troppo urlato o peggio, quello mancato, che appellano attenzione, rivitalizzazione. Così nulla sarà perso e nel tempo tutto riaffiorerà, come scintilla dalla cenere, fili d’erba che erompono dalla roccia a gridare la forza della vita, lacrime dolci che raccontano il dolore e, perle d'amore, lo sublimano in gioiosa speranza.
Vorrei tanto rimproverarti, adesso, in questo istante, e ancora, ancora… è il grido soffocato dal nodo che stringe in gola. Perché? Perché perdi sempre le chiavi, il telefonino da poco comprato, (i primi costavano un occhio della testa), dimentichi di pagare le multe e te la prendi con me che non te l’ho ricordato, ma come fai? mi fai impazzire di rabbia. Mi fai impazzire d’amore, mi fai impazzire... di dolore! Di dolore struggente… che si scioglie nel disgelo del ricordo. Il brivido che ridona calore dopo una stagione paralizzante
(Continua al numero successivo)