Quando nulla aldilà dell'individuo è riconosciuto come definitivo.
Nel discorso pronunciato dal Papa giovedì 17 aprile alla Catholic University of America di Washington ci sono alcuni concetti che vanno diretti al cuore delle questioni. Come suo solito il Santo Padre non “gira intorno” al problema, ma lo mette subito sotto discernimento razionale: sarà anche per questo che incontra tanto affettuoso consenso ed ammirazione.
In un’Università il contesto educativo e valoriale, e gli strumenti per attuarli, sono gli argomenti principali.
Ha detto Benedetto XVI: “Mentre abbiamo cercato con diligenza di coinvolgere l’intelligen-za dei nostri giovani, forse abbiamo trascurato la loro volontà”. In questo vuoto di “volontà” si inserisce sempre più quella idea di libertà come “disimpegno da…” invece di “impegno per…”.
Il fluttuare soggettivistico ed individualistico è continuamente messo in discussione dal Papa, specialmente quando parla ai giovani. Sembra che veda in questo, uno dei pericoli più gravi per la loro formazione umana e cristiana.
“La Chiesa - dice Benedetto XVI - mai si stanca di sostenere le categorie morali essenziali del giusto e dell’ingiusto, senza le quali la speranza può solo appassire, aprendo la strada a freddi calcoli pragmatici utilitaristici che riducono la persona a poco più di una pedina”.
“L’ideologia secolaristica pone un cuneo tra verità e fede. Questa divisione ha portato alla tendenza di eguagliare verità e conoscenza e ad adottare una mentalità positivistica…. Verità significa di più che conoscenza: conoscere la verità ci porta a scoprire il bene”.
Sorprende nel Papa la sua capacità di essere “ottimista”, di spingere continuamente a “fidarsi di Dio”, e di sollecitare a quella che lui chiama “conversione intellettuale” cioè a vedere il mondo con gli occhi del Signore. I giovani sentono nelle sue parole un respiro di preminenza del bene sul male, e, per questo, compostamente, gli fanno ressa intorno.
Al Papa non sfugge la richiesta di tante famiglie che “riconoscono il bisogno di eccellenza nella formazione umana dei loro figli”, e dice che “…gli educatori cristiani possono liberare i giovani dai limiti del positivismo e risvegliare la loro recettività nei confronti della verità, di Dio e della sua bontà”. Un sicuro cammino verso la pace interiore e il rispetto per gli altri parte proprio da qui.
Il discorso è molto bello e andrebbe letto completamente per riflettere sui tanti aspetti toccati. Per ultimo riporto quello che mi sembra il nucleo centrale, e che interroga tutti.
“Quando nulla aldilà dell’individuo è riconosciuto come definitivo, il criterio ultimo di giudizio diventa l’io, e la soddisfazione dei desideri immediati dell’individuo… All’interno di un simile orizzonte relativistico gli scopi dell’educazione vengono inevitabilmente ridotti. Lentamente si afferma un abbassamento dei livelli. Osserviamo oggi - osserva il Papa - una certa timidezza di fronte alla categoria del bene e un’inconsulta caccia di novità in passerella come realizzazione della libertà. Siamo testimoni della convinzione che ogni esperienza sia di uguale valore e della riluttanza ad ammettere imperfezioni ed errori”.
Deve poi essere menzionato un intelligente passaggio che addirittura tocca l’educazione sessuale, forse l’unico riferimento diretto ad una tematica precisa.
“E particolarmente inquietante è la riduzione della preziosa e delicata area dell’educazione sessuale alla gestione del “rischio”, privo di ogni riferimento alla bellezza dell’amore coniugale”.
Il Papa usa la parola “inquietante” riferendosi all’educazione, quando questa si riduce solo ad un addestramento personale, tralasciando la dimensione oggettiva del valore.
Quando la diagnosi è giusta, anche la terapia per la guarigione è a portata di mano.
Gabriele Soliani (Sessuologo)
Il secolo delle fedi
Cardinale Bertoni
( in occasione della presentazione del numero 42 della rivista Astenia, un periodico trimestrale di politica internazionale)
1. Ho accolto con piacere l’invito di Marta Dassù, Direttore di Aspen Institute Italia, e di altre importanti istanze istituzionali, a partecipare a questo incontro di altissimo livello, sul rapporto fra politica e religione nell’era globale.
Il tema, importante ed attuale, da tempo attira il mio interesse; in un certo senso è un argomento vasto come il mondo e, pertanto, ha coinvolto molti pensatori, uomini politici e uomini di Chiesa. Non vorrei, però, che qualcuno pensasse che, nel mondo globale, la Chiesa sta cercando di prevaricare sulla politica….pertanto, mi limiterò a condividere con voi alcune riflessioni ispiratemi dalla lettura dei ricchi e stimolanti dialoghi fra il Ministro Tremonti, Presidente di Aspen Institute Italia, ed il Presidente D’Alema, nonché fra il Presidente Amato e l’On. Quagliarello. Entrambe le conversazioni compaiono sull’ultimo numero di Aspenia, appena pubblicato e dedicato proprio al rapporto fra religione e politica.
Segnalo, anzitutto, la mia soddisfazione per aver riscontrato in tali dialoghi una certa convergenza sul fatto che, nell’era globale, la politica ed il mercato non sono tutto; sono un mezzo, ma non il fine. Mi sembra, inoltre, positivo un confronto sulle modalità in cui combinare ragione e fede. In un mondo dai confini sempre più aperti, il dialogo non è una scelta ma una necessità! Non sono mai stato d’accordo con chi sostiene che la politica sia inutile, perché promette di costruire ponti anche dove non passa il fiume! Sono convinto, invece, che la politica sia necessaria. Ma credo che, per comunicare valori autentici, debba rispettare il “ponte” che collega ciascuno di questi valori con Dio.
2. Pertanto, il primo punto su cui desidero attirare l’attenzione del qualificatissimo pubblico di quest’incontro è che i valori, di cui la politica si nutre, ben difficilmente possono essere rispettati vivendo etsi Deus non daretur (come se Dio non esistesse). Nella distinzione dei ruoli, la politica ha bisogno della religione; quando, invece, Dio è ignorato, la capacità di rispettare il diritto e di riconoscere il bene comune comincia a svanire.
Come ha detto Papa Benedetto XVI, nel suo recente viaggio apostolico in Francia, occorre «una cultura, per la quale il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione» (Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008)
Lo attesta l’esito tragico di tutte le ideologie politiche, anche di segno opposto, e mi pare che lo confermi l’odierna crisi finanziaria. Laddove si ricerca solo il proprio profitto, a breve termine e quasi identificandolo con il bene, si finisce per annullare il profitto stesso.
Esiste certamente un’etica “laica”, come spesso si dice, ossia non ispirata alla trascendenza. Essa merita attenzione, rispetto e sovente concorre al bene comune. Essa, però, rischia talvolta di assomigliare a quel tale che voleva uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli! In altre parole, non inspirandosi alla trascendenza finisce per essere più esposta alle fragilità umane ed al dubbio. Per questo motivo, nonostante nella nostra epoca si proclamino con particolare solennità i diritti inviolabili della persona, a queste nobili proclamazioni si contrappone spesso, nei fatti, una loro tragica negazione. Basti pensare alla povertà crescente, alla persistente imposizione di certi modelli culturali o economici, all’intolleranza.
In tale prospettiva, nel citato discorso il Santo Padre ha affermato: una «cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi» (Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008).
In questa stessa linea, il Papa ha ricordato più volte che, se l’Illuminismo era alla ricerca di fondamenti della morale validi “etsi Deus non daretur”, oggi dobbiamo invitare i nostri amici agnostici, anche quando si occupano della “cosa pubblica”, ad aprirsi a una morale “si Deus daretur”. In assenza di un punto di riferimento assoluto, infatti, l’agire dell’uomo si perde nell’indeterminatezza e sovente finisce in balia delle forze del male.
Non bisogna poi dimenticare che, nelle odierne società multi-etniche e multi-confessionali, la religione costituisce un importante fattore di coesione fra i membri e la religione cristiana in particolare, con il suo universalismo, invita all’apertura, al dialogo ed all’armoniosa collaborazione.
3. Proseguendo nella riflessione, desidero aggiungere che la religione non è un rimedio, una sorta di “oppio” dei poveri. Nell’odierno mondo politico capita che questa convinzione si trovi tanto a destra come a sinistra. Non credo, invece, che il “ritorno a Dio” debba essere circoscritto a quelle società che stentano a decollare o a quelle che, al contrario, sembrano costrette a frenare.
All’origine della conversione di S. Francesco, uno dei più grandi Santi e dei più famosi Italiani, non c’è una vita di stenti e di espedienti, quanto piuttosto di agi e di una certa dissolutezza. E’ vero che la ricchezza ed il benessere rappresentano anche una tentazione: quando è domenica e c’è il sole, chi ha una casa al mare ed una in montagna è tentato di andare là, piuttosto che in chiesa. Ma anche chi non le ha, spesso preferisce restare a dormire! Ciò che intendo dire è che, se la ricchezza o il potere costituiscono spesso una forte tentazione, perché è difficile gestirli senza attaccarvi il cuore, anche la povertà può spingere a fare a meno di Dio. In ogni modo, ricca o povera, influente o sconosciuta, ogni persona è fatta per Dio, che non manca di seguirla e di attirarla a sé. Si ricordi il famoso assioma del grande Sant’Agostino: «Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confessioni, I,1,1).
4. Facciamo un passo ulteriore. Desidero, cioè, sottolineare che, per gestire la globalizzazione, la politica non necessita soltanto di un’etica ispirata alla religione, ma ha bisogno che tale religione sia razionale. Anche per questo, la politica ha bisogno del Cristianesimo.
Fin dai suoi albori, infatti, alla luce della sua originaria novità, il Cristianesimo ha assunto, elaborato ed approfondito il meglio della sapienza greca e romana, presentandosi proprio come la vittoria del pensiero umano sul mondo delle religioni del tempo. Nel Cristianesimo, in un certo senso, la razionalità è divenuta religione, perché Dio non ha respinto la conoscenza filosofica, ma la ha assunta. S. Giustino, dopo aver studiato tutte le filosofie, aveva trovato nel Cristianesimo la vera philosophia. Era cioè convinto che, diventando Cristiano, non aveva rinnegato la filosofia; anzi, proprio allora era diventato pienamente filosofo.
La forza che ha trasformato il Cristianesimo in una religione mondiale è consistita esattamente nella sua sintesi fra ragione, fede e vita. Questa combinazione, così potente da rendere vera la religione che la manifesta, è anche quella che può consentire alla verità del Cristianesimo di risplendere nel mondo globalizzato e nel processo di mondializzazione.
A differenza di quanto sostengono alcuni politici e pensatori, il Cristianesimo non si accontenta di mostrare la parte della faccia che Dio tiene rivolta verso l’Occidente, in quanto nella sua essenza esso è mondiale e, quindi, risponde perfettamente alle dinamiche dell’odierno mondo globalizzato. La fede cristiana, quindi, non è una specie di optional dell’Occidente, magari un po’ superato, quanto piuttosto un tesoro per il mondo presente ed un investimento per quello futuro. Anzi, personalmente lo ritengo l’investimento migliore, perché è il più proficuo, quello che fruttifica per la terra e per il cielo!
Vale infine la pena di sottolineare che la fede cristiana e la razionalità secolare, consapevoli di essere alleate e protagoniste della cultura occidentale, potrebbero utilmente correlarsi con le altre grandi culture, nelle quali si identificano popolazioni anche più numerose di quella europea. Tale relazionalità, a sua volta, potrebbe aiutare a riscoprire o ad approfondire valori e norme presagiti da tutti gli uomini e consentire ad essi di conseguire nuova sorgente d’illuminazione e maggior forza operante. E’ evidente che tutto ciò aiuterebbe il compito specificamente politico d’indirizzo della globalizzazione.
5. E’ quindi del tutto opportuno, oltre che pienamente legittimo, che i Cristiani partecipino al dibattito pubblico. Altrimenti, argomenti e ragioni teiste e religiose non potrebbero essere invocati pubblicamente in una società democratica e liberale, mentre lo potrebbero gli argomenti razionalisti e secolari, con chiara violazione del criterio di eguaglianza e di reciprocità che sta alla base del concetto di giustizia politica.
La religione non è come il fumo, che si può tollerare in privato, ma che in pubblico deve essere sottoposto a strette limitazioni. Mi pare che questa consapevolezza si faccia strada nei dialoghi pubblicati sull’ultimo numero di Aspenia, e ne sono particolarmente lieto, anche se riconosco che alcune considerazioni, di fatto, evocano ancora la convinzione contraria, un po’ corrosa dal tempo e sfilacciata, ma che, come tutte le “bandiere”, non è facile da “ammainare”.
In ogni modo, «la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve restare ai margini nella lotta per la giustizia. …. ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili» (Lettera enciclica Deus caritas est, 28)
Il Cristianesimo conosce da sempre la distinzione fra la sfera religiosa e quella sociale e politica, in altre parole la sana laicità. L’ha scoperta addirittura prima dello Stato. Infatti, molti dei primi Cristiani furono martirizzati perché, pur insegnando il rispetto delle Autorità civili, si rifiutavano di offrire incenso all’Imperatore.
Nel suo recente Discorso all’Eliseo, il 12 settembre corrente, il Santo Padre ha ricordato che «sul problema delle relazioni tra sfera politica e sfera religiosa Cristo aveva già offerto il criterio di fondo, in base al quale trovare una giusta soluzione. Lo fece quando, rispondendo ad una domanda che gli era stata posta, affermò: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”» (Incontro con le Autorità dello Stato francese all’ Elysée, 12 settembre 2008).
Consapevole di tale distinzione, il Cristianesimo promuove valori che non si dovrebbe etichettare come “cattolici” e, quindi, “di parte”, accettabili solo da chi condivide questa fede. La verità di quei valori, infatti, sta nella loro corrispondenza alla natura dell’uomo e, dunque, alla sua verità e dignità. Di conseguenza, chi li sostiene non ambisce un regime confessionale, ma è semplicemente consapevole che la legalità trova il suo ultimo radicamento nella moralità e che quest’ultima, per essere pienamente umana, non può che rispettare il messaggio proveniente dalla natura della persona, perché in essa è iscritto anche il suo «dover essere». Pertanto, quando la legge positiva è in armonia con la legge naturale, l'attività dell'individuo e della comunità rispetta la dignità umana ed i diritti fondamentali della persona e può evitare tutte quelle strumentalizzazioni che rendono l'uomo miseramente schiavo del più forte, come ebbe a scrivere Giovanni Paolo II nell'Esortazione Apostolica Christifideles laici (n. 5). «E il più forte — egli continuava — può assumere nomi diversi: ideologia, potere economico, sistemi politici disumani, tecnocrazia scientifica, invadenza dei mass media» (ibid.)
Solo nel rispetto di precise condizioni, il desiderio di giustizia e di pace che sta nel cuore di ogni uomo potrà trovare appagamento e gli uomini, da «sudditi», potranno diventare veri e propri «cittadini». In questa prospettiva, è ancora attuale la lezione del poeta francese Charles Péguy, per cui la democrazia o è morale o non è democrazia.
In regime di democrazia, rispettare posizioni diverse è doveroso; fare proprie o appoggiare scelte e decisioni inconciliabili con la natura umana, è però una contro-testimonianza alla dignità della persona. In politica si deve spesso scegliere la strada possibile, anziché quella migliore; occorre tuttavia il coraggio di non imboccare ogni sentiero solo perché teoricamente percorribile.
6. E’ questa la prospettiva in cui collocare i ripetuti appelli del Papa e di tanti esponenti ecclesiali, in favore dei cosiddetti “valori non negoziabili”. Mi riferisco alla promozione della vita umana, dal suo concepimento fino alla fine naturale, alla tutela della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, all’educazione dei figli. La “non negoziabilità” di tali principi non dipende dalla Chiesa e dalla sua supposta intransigenza o, peggio, dalla sua chiusura mentale di fronte alla modernità; dipende, piuttosto, dalla natura umana stessa, a cui quei principi sono saldati. La natura umana non cambia con le maggioranze parlamentari e nemmeno con il passare del tempo, con il cambio di latitudine o di longitudine.
La frequenza degli interventi a tutela dei “valori non negoziabili” è determinata dall’assiduo riferimento a tali questioni nell'agenda politica odierna e dalla loro grande portata. Quando la politica cerca di sostituirsi alla natura dell’uomo, anziché difenderla, o quando il legittimo bilanciamento dei poteri e delle responsabilità dello Stato non viene rispettato ed in gioco c’è questa stessa natura, allora i Pastori debbono intervenire: non per hobby o per prevaricazione; quanto, piuttosto, per difendere la dignità e, in ultima analisi, il bene della persona e della società, da manipolazioni facilmente presentate come liberazioni. Non si tratta, pertanto, di un'indebita ingerenza della Chiesa in un ambito che non le sarebbe proprio, ma di un aiuto per far crescere una coscienza retta ed illuminata e, perciò stesso, più libera e responsabile. Del resto, né la democrazia è la regola del “non disturbo”, né la morale cattolica un utile “instrumentum regni”!
La Chiesa non insegue il plauso e la popolarità, perché Cristo la invia nel mondo «per servire» e non «per essere servita»; non vuole «vincere ad ogni costo», ma «convincere», o per lo meno «allertare» i fedeli e tutte le persone di buona volontà circa i rischi che corre l'uomo quando si allontana dalla verità su se stesso!
In questo contesto, ho apprezzato che, in spirito costruttivo e cooperativo, mi abbiate proposto di presentare il punto di vista della Chiesa cattolica sul rapporto fra religione e politica nell’era globale, e mi auguro che quest’incontro servirà a rendere tale rapporto sempre più fecondo per il bene comune e per lo sviluppo di un’autentica e sana democrazia. Grazie!
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************** Iolanda Lo Monte***************
Ogni giorno siamo chiamati a fare le nostre scelte di appartenenza a Dio o di partecipazione al male.
E’ assurdo, oltre che pericoloso, tentare di conciliare l’inconciliabile.
Il cristiano ha in sé una forza, un germe divino, che gli offre la possibilità di resistere
all’antico tentatore e di vivere il bene. Può non peccare, perché è nato da Dio.
Ovviamente questa possibilità non è una realtà già acquisita
ma una conquista personale da realizzare giorno per giorno, con sacrifici, rinunce e mortificazioni,
facendo fruttificare il seme della Parola, la grazia di Dio ricevuta nel Battesimo
e continuamente alimentata dalle innumerevoli grazie attuali, che il Signore dona a chi crede in Lui.