CRISI FINANZIARIA, RECESSIONE E BENE COMUNE
Il Vicariato di Roma, nell’ambito della formazione degli animatori negli ambienti di lavoro, ha tenuto lunedì 27 ottobre 2008, un incontro su “Crisi finanziaria, recessione e bene comune”.
Sintesi dell’incontro tenuto dal Dott. Francesco Mengozzi
La crisi finanziaria di queste settimane si presta, per sua natura, a molte interpretazioni, alcune anche ... ideologizzate.
Forse, facendo a meno di molti tecnicismi e abusando di qualche semplificazione, giova anzitutto avere chiaro che cosa è successo:
- approfittando di un livello del costo del credito eccezionalmente basso (bisognerebbe rifletterci quando ci si lamenta del costo del denaro!), molte famiglie americane hanno stipulato mutui garantiti da ipoteca sulle abitazioni e destinato il ricavo di tali finanziamenti, non ad altri investimenti, ma soprattutto al sostegno dei propri consumi;
- poiché il livello di tali consumi è un importante motore dell’economia mondiale, le autorità non hanno fatto nulla per ostacolare tale tendenza;
- nel frattempo i prezzi delle case continuavano ad aumentare, sicché le famiglie potevano continuamente accrescere l’entità dei mutui che conseguivano;
- le banche continuavano a seguire questa tendenza (è chiaro che esse più prestano e più guadagnano); però di tanto in tanto “impacchettavano” (si dice “cartolarizzavano”) gli ingenti crediti verso le famiglie in prodotti finanziari di massa che cedevano sul mercato ad altri intermediari (e anche su queste cessioni ovviamente guadagnavano); in tal modo si liberavano del rischio di insolvenza dei debitori e quindi erano spinte a prestare, con sempre minore attenzione alla qualità del destinatario del prestito, anche a mutuatari (i cosiddetti subprime borrowers) che, al primo stormir di fronda, non sarebbero stati in grado di rimborsare il mutuo che nel frattempo avevano speso (questa è l’implicazione più negativa del cosiddetto modello originate to distribute);
- all’improvviso però, come è inevitabile, gli immobili hanno cessato di crescere di valore anzi hanno cominciato a perderne, tanto da spingere le banche a chiedere alle famiglie di restituire in tutto o in parte i finanziamenti ricevuti (e purtroppo spesi);
- ciò ha innescato da un lato una serie di insoluti e di pignoramenti (con conseguenti vendite di immobili, ovviamente al ribasso) e dall’altro una diffusa “infezione” di tutti quei titoli nei quali le banche avevano “impacchettato” i loro crediti (non a caso li si chiama “tossici”), per cederli al mercato: infatti se il sottostante del titolo, cioè il mutuo concesso alle famiglie, entrava in sofferenza, non poteva non entrare in sofferenza anche la qualità del titolo in cui era stato “impacchettato”.
- E poiché questi titoli erano parcheggiati nei portafogli di molti intermediari finanziari, questi dovevano registrare una perdita di valore dei propri portafogli, con la conseguenza che la loro capacità di sostenere a loro volta il credito ottenuto per comprare questi titoli veniva posta in discussione.
Come è facile capire, tutto ciò ha innescato una violenta crisi di reciproca sfiducia che ha travolto banche, borse, istituzioni finanziarie etc., che tuttora dura con conseguenze drammatiche per il valore dei risparmi di tutti (fondi pensione inclusi!).
Occorre inoltre sapere che gran parte di questi intermediari finanziari avevano finanziato i loro investimenti in quelli che ora vengono detti i titoli “tossici” col ricorso al credito (avrete sentito parlare di leverage, che è il grado di indebitamento di un’impresa) e che quindi per loro la restrizione del credito che ne è derivata è esiziale.
Come tutto ciò arriva ad infettare la cosiddetta economia reale?
Premetto che trovo un po’ artificiosa la distinzione fra economia finanziaria ed economia reale, ma non è il caso qui di fare troppe sottigliezze e quindi riformulo la domanda: come tutto ciò, dopo aver posto a rischio i risparmi delle famiglie, potrà porre a rischio anche la loro capacità di produrre redditi?
Le connessioni sono molteplici, ovviamente: proviamo ad identificarne alcune:
- anzitutto il credito (avrete sentito parlare del cosiddetto credit crunch: le banche dovranno ripristinare un più corretto rapporto fra capitale proprio e credito concesso ai clienti e quindi, in attesa di avere più capitale, restringeranno le concessioni di credito): ci sarà scarsità di credito per le aziende, che quindi investiranno meno sia in impianti che in scorte;
- quindi, meno domanda di investimenti, meno produzione, meno assunzioni, più cassa integra-zione guadagni, etc. (come si vede credito e economia reale sono fortemente interconnessi, altro che economia reale ed economia finanziaria!);
- poi la diffusa sensazione di insicurezza e di subìto impoverimento, che raffredderà ulteriormente la domanda di consumi, in particolare di quelli non strettamente necessari (di qui, come avrete letto, le preoccupazioni per il settore auto, per esempio); meno consumi, meno domanda, meno produzione, etc.: la via dolorosa è quella del punto precedente.
Basta così, direi; ce ne è abbastanza per preoccuparsi seriamente, ma non, spero, per disperarsi; la disperazione infatti alimenta la crisi, come abbiamo visto poco fa e come torneremo a dire fra poco.
Prima di tentare però di delineare un come uscirne , tentiamo un giudizio di sintesi su quanto è accaduto.
Mi astengo da giudizi di tipo morale: non è la mia materia e non credo che il grado di leverage (cioè di indebitamento) costituisca materia propria per una valutazione morale.
Del resto, se pensiamo a quanta parte del mondo è uscita dalla povertà anche grazie a questo modo di funzionare dell’economia, non possiamo poi bruciare sul rogo tali meccanismi quando si inceppano: può sembrare strano parlare di prosperità crescente quando ci sono ancora centinaia di milioni di persone che vivono in condizioni di disperata povertà ma forse in nessun altro periodo della storia i progressi, sul piano della diffusione del benessere economico, sono stati così ampi e così rapidi come quelli che si sono verificati negli ultimi 25 anni: la quota di popolazione mondiale che vive con meno di un dollaro al giorno è precipitata dal 40% al 18% fra l’81 e il 2004 e, secondo le previsioni, dovrebbe scendere al 12% entro il 2015; la Cina ha visto uscire dalla povertà qualcosa come 400 milioni di suoi cittadini; la povertà sta cadendo nell’80% dei Paesi del mondo; in circa 150 Paesi, fra i quali Cina, India, Brasile, Indonesia, Kenya, Sud Africa, i poveri stanno per essere progressivamente assorbiti all’interno di economie crescenti e produttive.
E ciò rimane vero quand’anche si consideri che tantissimo c’è da fare, ancora e purtroppo.
Quella che è mancata in tutta la vicenda è stata la misura:
- prima di tutto la misura dei cittadini americani nel sostenere i propri consumi col debito;
- poi la misura in cui si è accettato da parte delle Autorità che i consumi potessero essere alimen-tati col debito delle famiglie;
- poi, ancora, la misura delle banche nel sostenere tale tendenza;
- poi, ancora e soprattutto, la misura delle banche nel finanziare questa ingente massa di rischi coi capitali di terzi.
- E poi, ancora, la misura nei distorsivi meccanismi di retribuzione di gran parte del management delle più importanti corporates, soprattutto finanziarie ed assicurative.
- E poi, infine, la misura, veramente scarsa questa, con cui si sono esercitati regolazione e controlli.
Si potrà poi anche sostenere che all’origine di tutto c’è stata una smodata (smisurata, appunto) propensione al consumo, frutto, si intende bene, di un distorto rapporto fra le più vere necessità dell’uomo e la loro ipertrofia consumistica: difficile negarlo; ma anche difficile negare è che sui consumi si reggono le economie del mondo: ovviamente, se non ci fossero i consumi non ci sarebbe chi si affanna per produrre ciò che li soddisfa, con ciò creando reddito e ricchezza.
Io credo, però, che occorra anche avere misura nel gettare l’acqua sporca del sistema per non rischiare di....buttare anche il bambino.
Capisco bene che questa tesi vi sembrerà riduttiva e che, forse, avreste potuto aspettarvi di sentirvi dire che occorre duramente condannare il perseguimento del profitto o la idolatria del denaro, sterco del diavolo! Ma io non me la sento di dire queste cose, perché non le penso e perché invece penso che l’economia del mondo è ancora in grado di fare molto per il benessere di sempre più larghi strati della nostra umanità. Ha certamente ed ovviamente ragione il Santo Padre quando dice che non la ricchezza ma solo la parola di Dio è solida e dura per sempre: ma io ho cercato solo di dare a Cesare quel che è di Cesare, lasciando ad altra sede e a ben altra autorità di dare a Dio quel che è di Dio.
E qui veniamo all’ultimo punto: come uscirne?
Tralascio qui ogni considerazione sulla urgenza di misure tecniche intese a prevenire il ripetersi di tali situazioni: si tratta, in larga misura, di provvedimenti da adottare sia sul fronte regolatorio sia su quello dei controlli, ma non credo che sia questa la sede per farne rassegna.
Sarebbe invece molto più interessante soffermarsi su quanto è necessario fare perché la quantità e la qualità dei mezzi messi a disposizione da tutti gli stati per fronteggiare l’emergenza diano luogo ad effetti proporzionati; in altri e più generici termini: è essenziale che gli interventi effettivamente operati disperdano il diffondersi di irrazionali paure che autoalimentano la crisi.
Potrebbe poi essere interessante discutere se sia necessario che venga transitoriamente allentata anche la disciplina finanziaria Europea per uno speciale sostegno alle economie dei paesi dell’area Euro.[La mia risposta è: forse sì, ma con speciale vincolo di destinazione agli investimenti infrastrutturali; però occorrerebbe affrontare il tema con maggiore tempo e profondità]
Restando però su un piano più generale, come mi pare la caratteristica di questo incontro richieda, io credo che, non ostante la gravità e la pericolosità di quello che è accaduto, si possa (anzi, proprio si debba) continuare ad avere fiducia (starei per dire: speranza) nella capacità del mondo di proseguire, sia pure fra inevitabili cadute, nel cammino intrapreso verso un ordine e una prosperità quanto più globale possibile. E la dimensione globale di queste possibilità non esclude, anzi tuttora implica necessariamente che le loro ricadute economiche possano essere anch’essi globali.
Occorre, secondo me, pur allarmati per quanto è potuto accadere per la violazione di elementari norme di prudenza e di misura nella valutazione dei rischi e pur determinati a mettere in essere tutte le misure tecnicamente necessarie per gestire le conseguenze della tempesta, guardare al famoso bicchiere con la certezza che esso è ancora mezzo pieno ma soprattutto guardare al bicchiere globale: se anche nel 2009 le economie occidentali vedranno contrarsi il loro prodotto interno (diciamo del 2% o del 3%? E sarebbe una ben grave recessione!), ebbene, nel quadro globale della ricchezza e della povertà non sarebbe cambiato granché e le capacità di ripresa resterebbero intatte, sempreché, ovviamente, non sopraggiunga una insensata disperazione.
L’economia del mondo è diventata ormai da tempo una dimensione globale: certo preoccupa – e molto – il forte rallentamento atteso per i consumi statunitensi ed europei; come pure il forte rallentamento dei tassi di crescita cinesi; come pure i non chiari scricchiolii di sistemi ricchissimi di materie prime (come la Russia); ma ci sono pur sempre centinaia di milioni di persone che spingono dal basso (basti pensare all’India, al Brasile o a molte regioni dell’Africa) o dall’alto (si pensi allo sviluppo della Cina) per accrescere la loro prosperità e c’è ancora la possibilità di favorire e sviluppare queste aspirazioni, anche accettando, come è ormai inevitabile, che tali economie crescano a velocità doppie delle nostre e che i loro surplus finanziari penetrino i nostri sistemi economici. La supremazia tecnologica e culturale del nostro mondo costituisce ancora una garanzia che l’occidente sia in grado di cogliere anche per sé queste opportunità.
Non c’è ragione dunque per disperare; abbiamo visto che alle radici di questa tempesta c’è stata una crisi di fiducia reciproca. Ma la reazione degli stati occidentali è stata, per una volta, pronta, ampia e per molti aspetti solidale: non c’è ragione per disperare che lavorando duramente possiamo rapidamente recuperare il percorso interrotto. Abbiamo ancora risorse culturali, amore per la vita e capacità di reazione e, mi pare, tutti i paesi del mondo occidentale si dicono pronti a metterle in campo.
I veri pericoli che dobbiamo affrontare sono proprio quelli della chiusura in noi stessi e del panico: chi si chiude in sé stesso teme gli altri, ne vede i pericoli e non le potenzialità, erige barriere, frena il processo di integrazione economica e culturale del mondo, non consuma se non quello che produce, non importa quello che viene prodotto altrove; ma anche, per conseguenza, non esporta ciò che produce, non mette a frutto la propria cultura, non si giova della spinta demografica delle popolazioni che cercano il benessere, impoverisce solitario nelle proprie valli sempre più decrepite, alimenta la propria disperazione e piange sulla ricchezza che via via comunque inesorabilmente perde.
Se avremo capito questa inevitabile dimensione del terzo millennio e sapremo guardare ad essa con coraggio ed apertura, credo che rapidamente riusciremo a superare lo shock di questi giorni: alcuni segnali che vedo nella nostra piccola realtà italiana non sono incoraggianti, ma io continuo a sperare e spero che anche tutti noi riusciamo a farlo, anche stringendo i denti ai venti della tempesta.
Ciò ovviamente non vuol dire che anche lungo questo percorso non ci siano grossi problemi da affrontare e gestire: penso, prima di tutto a quello della disciplina ambientale dello sviluppo o a quello dello sviluppo culturale di aree caratterizzate da fanatismo ed intolleranza religiosa. Quello che voglio semplicemente dire è che a crisi globali (come in fondo è stata quella finanziaria che abbiamo visto) si adattano solo soluzioni globali e che a crisi di fiducia si adattano massicce dosi di fiducia (ovviamente non insensate) e che prescindendo da tali ottiche si mettono in campo solo placebi falsamente rassicuranti.
Uscire dalle crisi economiche, per Paesi ricchi di benessere e di cultura quali noi ancora siamo, è ancora una volta una questione di fiducia in se stessi (e, se volete, di speranza negli altri). Io credo che possiamo e dobbiamo coltivare entrambe.