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Il dubbio Anna (continuazione)
Feci ritorno a casa convinta di aver finalmente risolto definitivamente il problema.
I giorni, anche se lentamente, iniziarono a trascorrere ed io non riuscivo ancora a recuperare le mie funzioni motorie: giorno dopo giorno trascorsero le settimane e poi i mesi. Si era ormai giunti al mese di Luglio, quando mi resi conto della terribile realtà; infatti, capii che avevo un corpo a me estraneo, che non rispondeva agli impulsi dati dal cervello: vivevano due persone differenti dentro lo stesso corpo.
Chiesi un nuovo appuntamento al chirurgo e, accompagnata da un'amica, fui ricevuta nel suo studio, una volta che ci fummo accomodate, lui, senza molti preamboli mi disse che il mio nervo reciso da sé tentava di ricongiungersi ed ad ogni suo capo emetteva delle escrescenze, che, inevitabilmente, mi arrecavano quei disturbi che io definivo scosse elettriche, pertanto si doveva, ad intervalli di una quarantina di giorni, riaprire la cicatrice ed asportare ciò che si era venuto a formare. Per la prima volta usò l'aggettivo “mioma” per definire ciò che avevo nella pancia. La mia amica gli domandò se c'erano probabilità di asportare quel tratto malato, ma la sua risposta fu decisa: “Signora, non spenda soldi inutilmente, per lei non c'è soluzione oltre quella che io le sto prospettando, purtroppo la devo disilludere su ogni probabilità di buona riuscita”; dopo una breve pausa aggiunse: “Cara signora, forse, lei tornerà a camminare solo a distanza di molto tempo, se eseguirà con precisione la terapia che le è stata prescritta”. Chiesi di precisare e rispose che non sarebbero trascorsi meno di due anni.
Non voglio essere monotona nel ripetere la mia disperazione. Nei giorni che seguirono iniziai la nuova terapia, era veramente una terapia d'urto ed il mio organismo mal si adattava a quei medicinali. Dopo pochi giorni che assumevo l'intero dosaggio prescrittomi, una mattina, nel tentativo di alzarmi dal letto, mi resi conto che non avevo il senso dell'orientamento, ed ero in preda a conati di stomaco e forti vertigini, unico modo per avvertire di meno quei disturbi era restare immobile ed a occhi chiusi.
Me ne stavo immobile non so da quanto tempo, con gli occhi chiusi, quando mi sembrò di vedere sulla parete che avevo di fronte, un piccolo cespuglio che man mano andava prendendo una forma umana; io pensai che era soltanto frutto della mia immaginazione e non le diedi importanza. Trascorse l'intera giornata e quell'immagine restava fissa dentro ai miei occhi; anche la notte continuai a vederla e tutto il giorno seguente. Io non ero spaventata, ma mi sentivo molto serena. Mi rivolsi a “Lei” dicendole: “Cosa desideri da me, perché sei qui”? Naturalmente non ottenni risposta ed aggiunsi, “Forse desideri che io venga a farti una visita, ma come posso fare se non sono in grado di camminare”? Poi, continuando a parlare fra me aggiunsi: “Se è questo che mi stai chiedendo, troverò il modo di venire da te”.
Quella stessa sera ne parlai a Rita e le chiesi di accompagnarmi al santuario del Divino Amore. Lei mi rispose: “Si! d'accordo ma mi dici come faccio io a portarti nelle condizioni in cui sei”? Io serenamente risposi: “Non lo so, ma sono certa che in qualche modo ce la faremo”.
L'indomani mattina, Rita, che non so dove abbia trovato il coraggio, mi prese e partimmo; giunte in quel luogo sacro, ci disponemmo a partecipare alla santa Messa che si stava celebrando. Con il pensiero mi rivolsi a quella Sacra immagine e con semplicità, le dissi, “Eccomi, sono qui, come forse tu desideri; ora sono io a doverti fare una richiesta, ma tu sai meglio di me di cosa io ho realmente bisogno, però ti prego ugualmente di aiutarmi: non permettere che io finisca i miei giorni su un letto, non ti chiedo di farmi tornare come ero prima di avere tutte queste sventure, ma di permettimi di poter badare almeno alle mie esigenze primarie, senza dover chiedere l'aiuto del prossimo”.
Tornata a casa, non ebbi più la gioia di vedere quella sacra immagine. (continua al prossimo mese) |
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