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GIUGNO 2012

     

 

IL NONO COMANDAMENTO

NON DESIDERARE LA DONNA D’ALTRI (Dal Catechismo della Chesa Cattolica Nn. 2514-2527)

 

            Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo (Es 20,17 ).

            Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt 5,28 ).

            San Giovanni distingue tre tipi di smodato desiderio o concupiscenza: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita [Cf 1Gv 2,16]. Secondo la tradizione catechistica cattolica, il nono comandamento proibisce la concupiscenza carnale; il decimo la concupiscenza dei beni altrui.

            La “concupiscenza”, nel senso etimologico, può designare ogni forma veemente di desiderio umano. La teologia cristiana ha dato a questa parola il significato specifico di moto dell'appetito sensibile che si oppone ai dettami della ragione umana. L'Apostolo san Paolo la identifica con l'opposizione della “carne” allo “spirito” [Cf Gal 5,16; Gal 5,17; 2515 Gal 5,24; Ef 2,3]. E' conseguenza della disobbedienza del primo peccato [Cf Gen 3,11]. Ingenera disordine nelle facoltà morali dell'uomo e, senza essere in se stessa un peccato, inclina l'uomo a commettere il peccato [Cf Concilio di Trento: Denz. -Schönm., 1515].

            Già nell'uomo, essendo un essere composto, spirito e corpo, esiste una certa tensione, si svolge una certa lotta di tendenze tra lo “spirito” e la “carne”. Ma essa di fatto appartiene all'eredità del peccato, ne è una conseguenza e, al tempo stesso, una conferma. Fa parte dell'esperienza quotidiana del combattimento spirituale:

            Per l'Apostolo non si tratta di discriminare e di condannare il corpo, che con l'anima spirituale costituisce la natura dell'uomo e la sua soggettività personale; egli si occupa invece delle opere, o meglio delle stabili disposizioni - virtù e vizi - moralmente buone o cattive, che sono frutto di sottomissione (nel primo caso) oppure di resistenza (nel secondo) all' azione salvifica dello Spirito Santo. Perciò l'Apostolo scrive: “Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito(Gal 5,25) [Giovanni Paolo II, Lett. enc. Dominum et Vivificantem, 55].

 

I. La purificazione del cuore

            Il cuore è la sede della personalità morale: “Dal cuore provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni” (Mt 15,19). La lotta contro la concupiscenza carnale passa attraverso la purificazione del cuore e la pratica della temperanza:

            Conservati nella semplicità, nell'innocenza, e sarai come i bambini, i quali non conoscono il male che devasta la vita degli uomini [Erma, Mandata pastoris, 2, 1].

            La sesta beatitudine proclama: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8). I “puri di cuore” sono coloro che hanno accordato la propria intelligenza e la propria volontà alle esigenze della santità di Dio, in tre ambiti soprattutto: la carità, [Cf 1Tm 4,3-9; 2Tm 2,22] la castità o rettitudine sessuale, [Cf 1Ts 4,7; Col 3,5; 2518 Ef 4,19 ] l'amore della verità e l'ortodossia della fede [Cf Tt 1,15;1Tm 1,3-4;2Tm 2,23-26]. C'è un legame tra la purezza del cuore, del corpo e della fede:

            I fedeli devono credere gli articoli del Simbolo, “affinché credendo, obbediscano a Dio; obbedendo, vivano onestamente; vivendo onestamente, purifichino il loro cuore, e purificando il loro cuore, comprendano quanto credono” [Sant'Agostino, De fide et symbolo, 10, 25: PL 40, 196].

            Ai “puri di cuore” è promesso che vedranno Dio faccia a faccia e che saranno simili a lui [Cf 1Cor 13,12; Gv 3,2]. La purezza del cuore è la condizione preliminare per la visione. Fin d'ora essa ci permette di vedere secondo Dio, di accogliere l'altro come un “prossimo”; ci consente di percepire il corpo umano, il nostro e quello del prossimo, come un tempio dello Spirito Santo, una manifestazione della bellezza divina.

 

II. La lotta per la purezza

            Il Battesimo conferisce a colui che lo riceve la grazia della purificazione da tutti i peccati. Ma il battezzato deve continuare a lottare contro la concupiscenza della carne e i desideri disordinati. Con la grazia di Dio giunge alla purezza del cuore mediante la virtù e il dono della castità, perché la castità permette di amare con un cuore retto e indiviso; -mediante la purezza d'intenzione che consiste nel tener sempre presente il vero fine dell'uomo: con un occhio semplice, il battezzato cerca di trovare e di compiere in tutto la volontà di Dio; [Cf Rm 12,2; Col 1,10 ] - mediante la purezza dello sguardo, esteriore ed interiore; mediante la disciplina dei sentimenti e dell'immaginazione; mediante il rifiuto di ogni compiacenza nei pensieri impuri, che inducono ad allontanarsi dalla via dei divini comandamenti: “La vista provoca negli stolti il desiderio” (Sap 15,5 ); - mediante la preghiera: Pensavo che la continenza si ottiene con le proprie forze e delle mie non ero sicuro. A tal segno ero stolto da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente, se Tu non lo concedi. E Tu l'avresti concesso, se avessi bussato alle tue orecchie col gemito del mio cuore e lanciato in Te la mia pena con fede salda [Sant'Agostino, Confessiones, 6, 11, 20].

            La purezza esige il pudore. Esso è una parte integrante della temperanza. Il pudore preserva l'intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. E' ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione.

            Il pudore custodisce il mistero delle persone e del loro amore. Suggerisce la pazienza e la moderazione nella relazione amorosa; richiede che siano rispettate le condizioni del dono e dell'impegno definitivo dell'uomo e della donna tra loro. Il pudore è modestia. Ispira la scelta dell'abbigliamento. Conserva il silenzio o il riserbo là dove trasparisse il rischio di una curiosità morbosa. Diventa discrezione.

            Esiste non soltanto un pudore dei sentimenti, ma anche del corpo. Insorge, per esempio, contro l'esposizione del corpo umano in funzione di una curiosità morbosa in certe pubblicità, o contro la sollecitazione di certi mass-media a spingersi troppo in là nella rivelazione di confidenze intime. Il pudore detta un modo di vivere che consente di resistere alle suggestioni della moda e alle pressioni delle ideologie dominanti.

            Le forme che il pudore assume variano da una cultura all'altra. Dovunque, tuttavia, esso appare come il presentimento di una dignità spirituale propria dell'uomo. Nasce con il risveglio della coscienza del soggetto. Insegnare il pudore ai fanciulli e agli adolescenti è risvegliare in essi il rispetto della persona umana.

            La purezza cristiana richiede una purificazione dell'ambiente sociale. Esige dai mezzi di comunicazione sociale un'informazione attenta al rispetto e alla moderazione. La purezza del cuore libera dal diffuso erotismo e tiene lontani dagli spettacoli che favoriscono la curiosità morbosa e l'illusione.

            La cosiddetta permissività dei costumi si basa su una erronea concezione della libertà umana. La libertà, per costruirsi, ha bisogno di lasciarsi educare preliminarmente dalla legge morale. E' necessario chiedere ai responsabili della educazione di impartire alla gioventù un insegnamento rispettoso della verità, delle qualità del cuore e della dignità morale e spirituale dell'uomo.

            “La Buona Novella di Cristo rinnova continuamente la vita e la cultura dell'uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali derivanti dalla sempre minacciosa seduzione del peccato. Continuamente purifica ed eleva la moralità dei popoli. Con la ricchezza soprannaturale feconda, come dall'interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di ciascun popolo e di ogni età” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 58].

 

IL DECIMO COMANDAMENTO

NON DESIDERARE LA ROBA D’ALTRI (Dal Catechismo della Chesa Cattolica Nn. 2464-2503)

 

            Non desiderare… alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo (Es 20,17). Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo (Dt 5,21).

Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore (Mt 6,21).

            Il decimo comandamento sdoppia e completa il nono, che verte sulla concupiscenza della carne. Il decimo proibisce la cupidigia dei beni altrui, che è la radice del furto, della rapina e della frode, vietati dal settimo comandamento. “La concupiscenza degli occhi” (1Gv 2,16) porta alla violenza e all'ingiustizia, proibite dal quinto comandamento [Cf Mi 2,2]. La bramosia, come la fornicazione, trova origine nell'idolatria vietata nelle prime tre prescrizioni della Legge [Cf Sap 14,12]. Il decimo comandamento riguarda l'intenzione del cuore; insieme con il nono riassume tutti i precetti della Legge.

 

I. Il disordine delle cupidigie

            L'appetito sensibile ci porta a desiderare le cose piacevoli che non abbiamo. Così, quando si ha fame si desidera mangiare, quando si ha freddo si desidera riscaldarsi. Tali desideri, in se stessi, sono buoni; ma spesso non restano nei limiti della ragione e ci spingono a bramare ingiustamente ciò che non ci spetta e appartiene, o è dovuto ad altri.

            Il decimo comandamento proibisce l' avidità e il desiderio di appropriarsi senza misura dei beni terreni; vieta la cupidigia sregolata, generata dalla smodata brama delle ricchezze e del potere in esse insito. Proibisce anche il desiderio di commettere un'ingiustizia, con la quale si danneggerebbe il prossimo nei suoi beni temporali:

            La formula “non desiderare” è come un avvertimento generale che ci spinge a moderare il desiderio e l'avidità delle cose altrui. C'è infatti in noi una latente sete di cupidigia per tutto ciò che non è nostro; sete mai sazia, di cui la Sacra Scrittura scrive: “L'avaro non sarà mai sazio del suo denaro” (Sir 5,9) [Catechismo Romano, 3, 37].

            Non si trasgredisce questo comandamento desiderando ottenere cose che appartengono al prossimo, purché ciò avvenga con giusti mezzi. La catechesi tradizionale indica con realismo “coloro che maggiormente devono lottare contro le cupidigie peccaminose” e che, dunque, “devono con più insistenza essere esortate ad osservare questo comandamento”:

            Sono, cioè, quei commercianti e quegli approvvigionatori di mercati che aspettano la scarsità delle merci e la carestia per trarne un profitto con accaparramenti e speculazioni; ... quei medici che aspettano con ansia le malattie; quegli avvocati e magistrati desiderosi di cause e di liti…[Catechismo Romano, 3, 37].

            Il decimo comandamento esige che si bandisca dal cuore umano l' invidia. Allorché il profeta Natan volle suscitare il pentimento del re Davide, gli narrò la storia del povero che possedeva soltanto una pecora, la quale era per lui come una figlia, e del ricco che, malgrado avesse bestiame in gran numero, invidiava quel povero e finì per portargli via la sua pecora [Cf 2Sam 12,1-4]. L'invidia può condurre ai peggiori misfatti [Cf Gen 4,3-7; 1Re 21,1-29]. E' per l'invidia del diavolo che la morte è entrata nel mondo [Cf Sap 2,24].

            Noi ci facciamo guerra vicendevolmente, ed è l'invidia ad armarci gli uni contro gli altri... Se tutti si accaniscono così a far vacillare il corpo di Cristo, dove si arriverà? Siamo quasi in procinto di snervarlo. . . Ci diciamo membra di un medesimo organismo e ci divoriamo come farebbero delle belve [San Giovanni Crisostomo, Homiliae in secundam ad Corinthios, 28, 3-4: PG 61, 594-595].

            L'invidia è un vizio capitale. Consiste nella tristezza che si prova davanti ai beni altrui e nel desiderio smodato di appropriarsene, sia pure indebitamente. Quando arriva a volere un grave male per il prossimo, l'invidia diventa un peccato mortale.

            Sant'Agostino vedeva nell'invidia “il peccato diabolico per eccellenza” [Sant'Agostino, De catechizandis rudibus, 4, 8]. “Dall'invidia nascono l'odio, la maldicenza, la calunnia, la gioia causata dalla sventura del prossimo e il dispiacere causato dalla sua fortuna” [San Gregorio Magno, Moralia in Job, 31, 45: PL 76, 621].

            L'invidia rappresenta una delle forme della tristezza e quindi un rifiuto della carità; il battezzato lotterà contro l'invidia mediante la benevolenza. L'invidia spesso è causata dall'orgoglio; il battezzato si impegnerà a vivere nell'umiltà.

            Vorreste vedere Dio glorificato da voi? Ebbene, rallegratevi dei progressi del vostro fratello, ed ecco che Dio sarà glorificato da voi. Dio sarà lodato - si dirà - dalla vittoria sull'invidia riportata dal suo servo, che ha saputo fare dei meriti altrui il motivo della propria gioia [San Giovanni Crisostomo, Homilia in ad Romanos, 7, 3: PG 60, 445].

 

II. I desideri dello Spirito

            L'Economia della Legge e della Grazia libera il cuore degli uomini dalla cupidigia e dall'invidia: lo rivolge al desiderio del Sommo Bene; lo apre ai desideri dello Spirito Santo, che appaga il cuore umano.

            Il Dio delle promesse da sempre ha messo in guardia l'uomo dalla seduzione di ciò che, fin dalle origini, appare “buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza” (Gen 3,6 ).

            La Legge data a Israele non è mai bastata a giustificare coloro che le erano sottomessi; anzi, è diventata lo strumento della “concupiscenza” [Cf Rm 7,7]. Il fatto che il volere e il fare non coincidano [Cf Rm 7,15] indica il conflitto tra la legge di Dio, la quale è la “legge della mia mente” e un'altra legge “che mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,23).

            “Ora, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono” (Rm 3,21-22). Da allora i credenti in Cristo “hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri” (Gal 5,24); essi sono guidati dallo Spirito [Cf Rm 8,14] e seguono i desideri dello Spirito [Cf Rm 8,27].

III. La povertà di cuore

            Ai suoi discepoli Gesù chiede di preferirlo a tutto e a tutti, e propone di “rinunziare a tutti” i loro “averi” (Lc 14,33) per lui e per il Vangelo [Cf Mc 8,35]. Poco prima della sua Passione ha additato loro come esempio la povera vedova di Gerusalemme, la quale, nella sua miseria, ha dato tutto quanto aveva per vivere [Cf Lc 21,4]. Il precetto del distacco dalle ricchezze è vincolante per entrare nel Regno dei cieli.

            Tutti i fedeli devono sforzarsi “di rettamente dirigere i propri affetti, affinché dall'uso delle cose di questo mondo e dall'attaccamento alle ricchezze, contrario allo spirito della povertà evangelica, non siano impediti di tendere alla carità perfetta” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 42].

            “Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3). Le beatitudini rivelano un ordine di felicità e di grazia, di bellezza e di pace. Gesù esalta la gioia dei poveri, ai quali già appartiene il Regno: [Cf Lc 6,20]

            Il Verbo chiama “povertà di spirito” l'umiltà volontaria di uno spirito umano e il suo rinnegamento; e l'Apostolo ci addita come esempio la povertà di Dio quando dice: “Si è fatto povero per noi” (2Cor 8,9) [San Gregorio di Nissa, Orationes de beatitudinibus, 1: PG 44, 1200D].

            Il Signore apostrofa i ricchi, perché trovano la loro consolazione nell'abbondanza dei beni (Lc 6,24). “Il superbo cerca la potenza terrena, mentre il povero in spirito cerca il Regno dei cieli” [Sant'Agostino, De sermone Domini in monte, 1, 1, 3: PL 34, 1232]. L'abbandono alla Provvidenza del Padre del cielo libera dall'apprensione per il domani [Cf Mt 6,25-34]. La fiducia in Dio prepara alla beatitudine dei poveri. Essi vedranno Dio.

 

IV. “Voglio vedere Dio”

            Il desiderio della vera felicità libera l'uomo dallo smodato attaccamento ai beni di questo mondo, per avere compimento nella visione e nella beatitudine di Dio. “La promessa di vedere Dio supera ogni felicità. Nella Scrittura, vedere equivale a possedere. Chi vede Dio, ha conseguito tutti i beni che si possano concepire” [San Gregorio di Nissa, Orationes de beatitudinibus, 6: PG 44, 1265A].

            Il popolo santo deve lottare, con la grazia che viene dall'Alto, per ottenere i beni che Dio promette. Per possedere e contemplare Dio, i cristiani mortificano le loro brame e trionfano, con la grazia di Dio, sulle seduzioni del piacere e del potere.

            Lungo questo cammino della perfezione lo Spirito e la Sposa chiamano chi li ascolta [Cf Ap 22,17 ] alla piena comunione con Dio:

            Là sarà la vera gloria, dove nessuno verrà lodato per sbaglio o per adulazione; il vero onore, che non sarà rifiutato a nessuno che ne sia degno, non sarà riconosciuto a nessuno che ne sia indegno; né d'altra parte questi potrebbe pretenderlo, perché vi sarà ammesso solo chi è degno. Vi sarà la vera pace, dove nessuno subirà avversità da parte di se stesso o da parte di altri. Premio della virtù sarà colui che diede la virtù e che promise se stesso come ciò di cui non può esservi nulla di migliore e di più grande… “Sarò vostro Dio e voi sarete mio popolo” (Lv 16,12)… Ancora questo indicano… le parole dell'Apostolo: “Perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28). Egli sarà il fine di tutti i nostri desideri, contemplato senza fine, amato senza fastidio, lodato senza stanchezza. Questo dono, questo affetto, questo atto sarà certamente comune a tutti, come la stessa vita eterna [Sant'Agostino, De civitate Dei, 22, 30].

 

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Ultimo aggiornamento: 12 novembre 2021
 
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